Quanto peseranno le parole di Schwarzenbach il 27 settembre 2020?

di Toni Ricciardi, storico delle migrazioni presso l’Università di Ginevra

“Non abbiamo più spazio. Il nostro ambiente, il nostro paesaggio è messo in serio pericolo. Le nostre città non si riconoscono più”. Potremmo continuare all’infinito, ma in estrema sintesi, queste sono frasi che, decontestualizzate, ci appaino ragionevoli e tutto sommato sottoscrivibili. Invece, se le inseriamo nei discorsi nei quali vengono maggiormente utilizzate negli ultimi cinquant’anni in Svizzera, probabilmente il nostro punto di vista cambia. Eppure, cosa c’entrano queste argomentazioni con l’altro? Con il migrante? Perché non parlare direttamente di sicurezza, oppure, di culture e stili di vita diversi?

Le stesse domande furono poste molte volte a James Schwarzenbach, che per certi versi potrebbe essere identificato come tra i primi populisti dell’Europa contemporanea. Tra il 1969, anno nel quale fu depositata la sua prima iniziativa, e il giugno del 1970, quando l’iniziativa fu confrontata al responso delle urne, la risposta del facoltoso politico – che si vantava di non avere mai dovuto lavorare nemmeno un giorno della propria vita – fu di una semplicità disarmante: “Io non mi occupo di stranieri, di coloro che vengono in questo Paese, bensì degli Svizzeri”. Detto diversamente, “del mio popolo”.

Fu proprio in quegli anni che si sviluppò anche nell’opinione pubblica elvetica, come mai prima, il concetto del “prima i nostri”.

Poco importa chi sia “l’altro”, in che modo leda i nostri diritti e il nostro stile di vita. Ciò che conta è che questo “altro” diventi il bersaglio delle nostre insicurezze e delle nostre paure. Oggi, cinquant’anni dopo, abbiamo assistito alla sedimentazione di questo concetto, divenuto un refrain internazionale: prima gli svizzeri, gli italiani, i francesi, gli olandesi, gli austriaci, American First, e potremmo continuare, anche in questo caso, all’infinito. Insomma, c’è sempre qualcuno che viene prima di qualcun altro. Chi sia questo qualcun altro, in che modo leda i nostri diritti, il nostro benessere, il nostro stile di vita, poco importa. Ciò che conta è che questo “altro” esista e che diventi il bersaglio delle nostre insicurezze e delle nostre paure.

Molte parole, purtroppo, da tempo hanno perso il loro significato, anch’esse ormai sono vittime della bulimia comunicativa. Quando ascoltiamo o leggiamo prese di posizione rispetto all’altro, ormai le differenze sembra non esistano più. Migranti, profughi, richiedenti asilo, migranti economici, politici, ambientali, sono termini interscambiabili; in altre parole, essi sono utilizzati semplicemente per definire l’altro, quell’altro che sappiamo solo che non vogliamo. Il perché di questo nostro rifiuto, le motivazioni alla base di questo nostro pensiero, poco contano.

Se facciamo ricorso al tedesco, forse riusciamo a ottenere qualche ulteriore chiarimento. Le parole assumono un significato diverso in base al contesto storico nel quale vengono usate, ovvero, lo stesso vocabolo può assumere significati diversi, in fasi storiche differenti, come nel caso di Überfremdung (“inforestierimento” nella sua versione ticinese). Il termine ebbe origine all’indomani del primo conflitto mondiale e semanticamente era la sintesi di un insieme di interferenze linguistiche: Überschwemmung (inondazione), Überrumpelung (irruzione), Übermacht (supremazia), Überfall (aggressione. Non è un caso che il termine Überfremdung nacque nella Svizzera tedesca del primo dopoguerra in cui si denunciava l’eccessiva presenza dei tedeschi.

Eppure, la Confederazione all’epoca era ancora un Paese di emigrazione – si pensi ai ticinesi o ai vallesani che partivano oltreoceano – che stava progressivamente divenendo un attrattore di forza lavoro. E ancora, almeno fino alle metà degli anni Sessanta del Novecento, più dell’80% degli stranieri proveniva dai Paesi confinanti: Germania, Austria, Francia e, dopo il 1945, Italia.

Dalla metà degli anni ’70 esplose l’avversione verso i migranti italiani. Si aveva paura che fossero più bravi e più abili.

L’Überfremdung ricomparve nel dibattito pubblico svizzero alla metà degli anni Sessanta, anche se i connotati, mezzo secolo dopo, erano ancora quelli della preoccupazione e della diffidenza. Questa volta però, le paure erano nutrite verso gli italiani e le italiane. Per comprendere le preoccupazioni dell’epoca, rileggiamo insieme alcuni passaggi del discorso che lo scrittore Max Frisch tenne il 1° settembre del 1966 a Lucerna, durante la Conferenza annuale dei capi della Polizia degli stranieri:

“Che significa infiltrazione straniera? Il giovanotto che nell’albergo prende il mio bagaglio, la cameriera ai piani, il barista, più tardi il portiere di notte, l’altro cameriere che serve la prima colazione, tutte queste persone che rendono piacevole il mio soggiorno in patria sono rispettivamente: uno spagnolo, una jugoslava, un italiano, ancora un italiano, un terzo italiano, un renano. Ignoro chi fa i piatti e chi lava le camicie. L’unico che parli dialetto svizzero è il proprietario. […] si fiuta un pericolo per la nazione […]. Da una parte tutto ciò che è sano, sacrosantamente giusto, nostrano e valido, in breve: svizzero. Dall’altra eserciti di estranei che piombano sul nostro benessere, sempre più piccoli e sempre più neri, calabresi, greci, turchi. […] alcuni si preoccupano per il fatto che gli italiani, del cui aiuto abbiamo bisogno, sono cattolici. Altri temono che i lavoratori italiani possano essere comunisti”.

Per Max Frisch, il differente credo religioso e l’anticomunismo non sarebbero sufficienti a spiegare l’avversione nei confronti degli italiani. Piuttosto, esso nascerebbe dalla paura che possano essere più bravi e più abili, figurarsi poi, se si trattava di meridionali.

“Che i meridionali siano sporchi è, da parte nostra, una speranza: perché allora possiamo vantarci, se non sappiamo cantare, di essere almeno puliti. Ma nemmeno questa speranza trova sempre conferma: un medico condotto mi ha assicurato che gli italiani, al contrario dei pazienti locali, si presentano con i piedi lavati. […] Si ha un bel definirli manodopera straniera: sono creature umane. Diamo loro baracche e, appena possibile, anche appartamenti: un’inserzione apparsa in un quotidiano svizzero, per mezzo della quale si offriva un pollaio come alloggio per gli italiani, dev’essere considerata un’infelice eccezione”.

L’autocritica e il confronto con l’altro, tanto diverso ma strutturalmente funzionale ai dettami economici, inducono a dover ripensare anche alla storia della Svizzera, alla reputazione del Paese e alla sua immagine internazionale. Per quanto riguarda gli italiani, ci ricorda Frisch: “il risentimento, di cui sono spesso fatti oggetto, è naturale, perché figli di una grande cultura, meno abbienti e meno istruiti di noi, ci fanno sentire la loro possibile superiorità nell’arte del vivere”.

Ovviamente, potremmo utilizzare uno stereotipo, o meglio una provocazione al contrario prendendo in prestito le parole di Orson Welles ne Il terzo uomo (1949): “Sai che diceva quel tale? In Italia, per trent’anni sotto i Borgia, ci furono guerre, terrore, omicidi, carneficine, ma vennero fuori Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera non ci fu che amore fraterno, ma in Cinquecento anni di quieto vivere e di pace cosa n’è venuto fuori? L’orologio a cucù”.

Siamo certi che Welles non ignorasse i secoli di conflitti religiosi che fecero della Svizzera il crocevia europeo delle guerre di religione, tuttavia, uno stereotipo attecchisce con molta facilità, ieri come oggi.

Per questa ragione, cinquanta anni dopo la stagione Schwarzenbach, che non si concluse nel 1970, ma iniziò con quella prima iniziativa alla quale ne seguirono altre per tutto il decennio (tutte respinte), occorre prestare attenzione al tema dell’altro. Le percezioni sono elementi importanti nella formazione dei pensieri delle persone. Una percezione non per forza rispecchia la realtà, ma certamente è in grado di far riemergere le paure e le diffidenze delle quali ci parla Max Frisch nel 1966. La storia, come sappiamo, non si ripete mai allo stesso modo, tuttavia, il linguaggio ed i contenuti delle idee, a volte sì. Infatti, sembra quasi un gioco del destino, eppure in vista dell’iniziativa del prossimo settembre volta all’abolizione della libera circolazione, ancora una volta le parole di Schwarzenbach sono al centro della narrazione politica.

Il 27 settembre sapremo se, almeno questa volta, a differenza del febbraio 2014, la storia ci abbia insegnato qualcosa.

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