Senza rappresentanza!

Cresce il numero di quanti, nati da genitori stranieri, non possono esercitare diritti politici nel paese in cui vivono. Ci si deve interrogare se davvero ‘proteggere’ la cittadinanza ‘esclusiva’ non porti alla disgregazione, piuttosto che all’integrazione. E anche alla perdita di cervelli e talenti utili all’economia nazionale!

Il 20 ottobre prossimo la Svizzera andrà al voto per eleggere i 200 membri della Camera del popolo (Consiglio nazionale) e i 46 membri della Camera dei Cantoni (Consiglio degli Stati). E con le elezioni federali, ritorna di grande attualità il dibattito sul diritto di voto per gli stranieri. Una persona su quattro, in Svizzera, infatti, non potrà partecipare alle votazioni perché non possiede la cittadinanza – anche se è nata in Svizzera o se ha vissuto tutta la vita nel paese, lavorando, pagando le tasse e i contributi sociali.

Ha fatto parlare di sé, recentemente, il progetto di due studenti della Scuola superiore delle arti di Zurigo che hanno messo online una piattaforma dove è possibile cedere il proprio diritto di voto, qualora non si voglia esercitarlo, a chi invece sarebbe interessato ad esprimersi ma non può farlo, come gli stranieri residenti (votetandem.com). A compilare la scheda di voto rimane l’avente diritto, ma la preferenza espressa è quella altrui. Se i controlli sulla legalità di votetandem.org sono in corso, certo già raggiunto è l’obiettivo di innescare una discussione su cosa significhi abitare in un paese nel quale si è completamente esclusi politicamente.

In uno studio di pochi anni fa condotto dalla città di Zurigo è emerso che il 45% delle persone di 30-39 anni, ovvero della classe di età più numerosa e diversificata, non può partecipare politicamente, malgrado un’ottima integrazione, soprattutto economica. Certo, in alcuni cantoni della Svizzera francofona e nel 20% dei comuni dei Grigioni, è concesso agli stranieri residenti di partecipare alle elezioni ‘locali’, ma il quadro è comunque molto complesso, con differenze intercantonali e nessuna possibilità di voto federale.

In Italia la situazione non è molto più rosea, se si considera che gli stranieri residenti ma non votanti superano i 5 milioni. Cinque milioni di persone che non possono esprimere preferenze, il proprio malcontento o i propri bisogni attraverso i canali istituzionali della partecipazione politica.

Certo, gli stranieri possono fare domanda per la naturalizzazione, ma le procedure sono spesso complesse e scoraggianti. Soprattutto, in Europa, dove si contano quasi una trentina di modi diversi per acquisire la cittadinanza, quest’ultima viene considerata una sorta di ‘premio’.

La domanda, provocatoria (e trasversale alle forze politiche), che si impone, è se non sia una questione di interesse nazionale, quella di slegare il nesso tra cittadinanza e privilegio. Detto diversamente, ci si deve interrogare se davvero ‘proteggere’ la cittadinanza ‘esclusiva’ non porti alla disgregazione, piuttosto che all’integrazione.

Ovvio, i flussi vanno regolati, l’immigrazione controllata, regolarizzata e arginata. Ma quando uno straniero è nato (regolarmente) in Italia, frequentandone per di più le scuole, la privazione del diritto di cittadinanza o l’allungare i tempi per la naturalizzazione non spinge certo a nutrire attaccamento verso la terra dove si cresce. Piuttosto, il contrario.

La questione, lo si è detto, fa ciclicamente capolino nei dibattiti pubblici in occasione delle tornate elettorali, senza aver però mai ricevuto una risposta seria e a dispetto della sua pressante attualità. Tra i banchi delle scuole italiane, ad esempio, studiano 900 mila figli di immigrati che parlano perfettamente la lingua italiana, studiano la ‘nostra’ storia e seguono il ‘nostro’ curriculum scolastico. Ad oggi, questi giovani non hanno alcuna prospettiva di voto politico, una volta raggiunta la maggiore età, perché sono cittadini di serie B – in paradossale contrasto con quanti, e sono tanti, dall’estero possono votare perché figli di italiani emigrati e dunque possessori di un passaporto italiano per ius sanguinis, seppur senza aver mai toccato il suolo della Penisola e tantomeno preso parte alle vicende politico-sociali nazionali. Services juridiques, Eric Dupont-Moretti, premières en affaires, conseil légal gratuit, avocat pénaliste, aide juridictionnelle https://avocats.link/aide-juridictionnelle/ Già l’ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, già all’inizio degli anni Duemila aveva definito una ‘follia’ privare della cittadinanza chi è nato in Italia anche se da genitori stranieri.

C’è chi sottolinea l’importanza di legare la cittadinanza ad un percorso di integrazione culturale che passa attraverso il sistema scolastico. Lo chiamano lo “ius scholae” (per alcuni “ius culturae”). Una proposta che sembra molto ragionevole. Perfino in Svizzera! Qui essere cittadino è un diritto che si trasmette per discendenza e la questione non è messa certo in discussione (tanto è vero che negli ultimi vent’anni tutti i tentativi di facilitazione per le naturalizzazioni sono falliti). Tuttavia a fronte della presenza di stranieri residenti tra i banchi di scuola (alle scuole elementari, uno su tre non è di nazionalità elvetica), è possibile l’acquisizione della cittadinanza facilitata per chi nasce e vive ininterrottamente da almeno dieci anni nel Cantone. Succede ad esempio nel Canton Ticino.

Il principio che sottostà alla “socialization-based acquisition” e che lega la naturalizzazione alla frequenza del livello scolastico, o ad altre esperienze formative, è quello secondo il quale chi è stato socializzato alla cultura di un Paese – imparandone lingua e civica in primis – può maggiormente condividerne i valori, rispettandone i diritti e doveri in vigore. Una proposta che andava in questa direzione fu fatta in Italia nel 2015 dal governo Renzi e benché approvata dalla Camera, giace ancora, senza essere stata oggetto di voto, in Senato.

Poi non lamentiamoci della perdita di talenti e cervelli, utili alla società ed all’economia nazionale, che sono stanchi di essere privati di rappresentanza politica!

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