Un anno di Covid e il racconto di un’infermiera in prima linea. NOI SIAMO QUI

di Cristina Penco

La spina dorsale di qualsiasi sistema sanitario: così Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha definito gli infermieri. Come ha sottolineato il Ministro della Salute italiano Roberto Speranza, sono figure che svolgono sempre di più un ruolo fondamentale negli ospedali e nel rapporto con i malati e le famiglie sul territorio. Sostenere il loro lavoro significa tutelare il diritto alla salute di tutti noi.

La Giornata internazionale dedicata agli infermieri si celebra in tutto il mondo e online il 12 maggio, giorno della nascita di Florence Nightingale, avvenuta a Firenze, figlia di genitori inglesi (1820- 1910). Divenne fondatrice dell’infermieristica moderna. Durante la guerra di Crimea (1853-1856), i soldati la videro girare a qualsiasi ora del giorno tra letti e barelle, per controllare i feriti. Instancabile, non si fermava neppure di notte, quando continuava a prestare servizio con pochi mezzi, tra cui una lampada (fu infatti denominata la “dama della lanterna”). I suoi precetti e le linee guida sono seguiti ancora oggi nella cura del paziente, tuttora alla base dei corsi della Nightingale Training School che istituì nel 1860. In grado di trattare a tu per tu con i grandi luminari del tempo, la pionieristica Nightingale fu anche la prima donna membro della Royal Statistical Society (avrebbe fatto il suo ingresso pure all’American Statistical Association). Contribuì, inoltre, alla nascita dei servizi sociali inglesi e ispirò Henry Dunant per la creazione della Croce Rossa Internazionale.

In occasione della Giornata Mondiale degli infermieri, il Corriere dell’Italianità ha intervistato Elisabetta Bassani, Coordinatrice dell’Area Blocchi Operatori, Sale Interventistiche e centrale di sterilizzazione dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano.

Come ha cominciato il suo percorso professionale?
«Ho iniziato a lavorare nel 1982 come ausiliaria in sala operatoria. Mi sono formata come infermiera e ho subito cercato di seguire la mia passione, riuscendo a lavorare in sala operatoria come strumentista. Sono entrata al San Raffaele nel 1986. Proseguendo, poi, il mio percorso di crescita, ho acquisito il ruolo di Coordinatrice di unità operativa. Dal 2005, in seguito a una revisione organizzativa voluta dalla dirigenza del nostro ospedale, ho acquisito il ruolo di Coordinatore di Area».

In che cosa consiste il suo lavoro?
«Mi occupo di coordinare l’area dei blocchi operatori dell’ospedale (26 sale operatorie), l’area di Elettrofisiologia ed Emodinamica (5 sale operative), quella di Endoscopia digestiva (7 sale operative) e infine la centrale di sterilizzazione. Faccio da collante tra infermieri, chirurghi e anestesisti, le tre figure cardine presenti nelle sale, tutto al fine di rendere il miglior servizio possibile in termini di clima, qualità, sicurezza sia per gli operatori che per i pazienti, nostro obiettivo finale. Rispondo alla dirigenza Infermieristica per quello che riguarda la gestione delle risorse infermieristiche e alla direzione sanitaria per quello che riguarda la fase della programmazione, dello sviluppo, della pianificazione per un utilizzo più razionale degli spazi e delle risorse ove possibile».

Elisabetta Bassani al lavoro con una collega

Svolge altri compiti?
«Partecipo a riunioni in vista di possibili programmazioni future e/o di eventuali modifiche organizzative sia relative all’organizzazione programmatoria che alla gestione delle risorse. Favorisco una pianificazione delle sale operatorie, anche in funzione di un utilizzo più razionale e condiviso di spazi e tecnologie, promuovo lo sviluppo del personale pure in un’ottica di integrazione. Monitoro e sovrintendo l’andamento gestionale dell’attività. Sono referente per i sistemi informativi del processo di informatizzazione dei blocchi operatori. Contribuisco all’attuazione di azioni per l’implementazione delle tematiche relative alla sicurezza dei lavoratori e dei pazienti».

Ci descrive una sua giornata tipo?
«Al mattino cerco di essere in ospedale con l’inizio delle attività alle 7.30 circa. Solitamente termino la mia giornata dopo che mi rendo conto non ci siano state importanti criticità, verso le 18 circa. Ritengo importante fare un giro quotidiano nelle aree di mia competenza. Questo mi fa sentire più vicina alle persone, condividendo con loro eventuali problematiche o difficoltà cercando, ove possibile, soluzioni».


Per una posizione come la sua, al netto di competenze ed esperienza, quali doti caratteriali servono?
«È un ruolo che richiede capacità di mediazione e diplomazia. Occorrono grande elasticità, capacità di superare le problematiche quotidiane, inventiva e spesso velocità di pensiero. Quando si presenta una criticità è naturale fermarsi a riflettere per analizzare le varie sfaccettature e considerare i punti di vista e i bisogni delle varie professionalità coinvolte. Ma si deve fare tutto questo velocemente e trovare soluzioni a volte immediate, perché spesso si tratta di questioni urgenti. Tento di non imporre la mia idea. Cerco sia la condivisione che il dialogo con i professionisti: questo confronto spesso ti apre a soluzioni che magari non sono così evidenti di primo acchito».

Possiamo parlare di vocazione?
«Non mi piace definirla così. La vocazione ha presupposti diversi. È un lavoro che personalmente ho sempre desiderato di poter fare. Ma non lo considero una missione. Semmai, una passione, quella che ho sempre avuto io, ad esempio, per la sala operatoria e tutto ciò che è legato a essa».

Quest’ultimo anno è stato segnato dalla pandemia. Un suo ricordo, in particolare?
«Il Covid è stato uno tsunami, un’esperienza molto forte che ci ha colto tutti quanti alla sprovvista. Per la mia parte vorrei dire che ciò che mi ha più spaventato e più preoccupato è stato quando abbiamo dovuto rivoluzionare la nostra organizzazione e indirizzarla verso una situazione totalmente nuova ed estremamente incerta. Il mio pensiero era legato alle “mie” persone, che devo gestire e delle quali sono responsabile. Per me il momento peggiore della pandemia sono state quelle due ore di una domenica pomeriggio di marzo, quando ho dovuto chiamare i miei Infermieri e comunicare loro che dalla sera stessa sarebbero dovuti andare in un’area Covid. Significava, dal nulla, rimettersi in gioco, ridisegnare la propria professione, mettere in gioco le proprie competenze, sottoporsi a uno stress fisico e psichico gravosissimo».

Col passare dei mesi come si è evoluto il contesto?
«Ho compreso subito la grande capacità di resilienza, resistenza e integrazione mostrata dagli infermieri, quelli del nostro ospedale, di tutta Italia e, mi permetto, del mondo intero. Tale consapevolezza deriva dalle mail di ringraziamento, molto emozionanti, che mi sono giunte da parte di coloro che erano stati mandati in prima linea a fronteggiare l’emergenza sanitaria e tutto ciò mi è stata confermato quando ho dovuto reclutare per la seconda volta il personale che nel frattempo era tornato a svolgere la propria attività in occasione della seconda ondata. Senza nessun problema gli infermieri si sono rimessi a disposizione e, ancora oggi, prestano servizio presso le aree Covid del nostro ospedale».

Lei ha origini milanesi? Che storia personale ha alle spalle?
«Sono nata in Libia nel 1958 da genitori italiani. I miei nonni erano andati lì sulla scia di una vecchia emigrazione dei nostri coloni, in quelle zone, nei primi anni del Novecento. Avevo sei anni quando è scoppiata la Guerra dei Sei Giorni in Medio Oriente e avevo 12 anni quando c’è stata la Rivoluzione libica. Sono stata una dei profughi scappati dalla Libia in seguito alla cacciata degli italiani imposta dal colonnello Muhammar Gheddafi, negli anni Settanta».

Una vicenda sofferta di tanti nostri connazionali. Crede abbia inciso nel suo approccio alla sua professione?
«
Grazie ai miei genitori l’ho vissuta in maniera non traumatica. All’epoca ero una ragazzina e ho vissuto quello che era un dramma forse con lo spirito dell’avventura. Una volta adulta ho compreso la sofferenza che devono aver provato i miei, costretti ad abbandonare tutto dall’oggi al domani e andare via. Penso   sempre che la mia determinazione, la mia forza, la mia capacità di adattamento siano date da quella mia esperienza passata. A causa del trasferimento e del lavoro di mio padre ho vissuto a Roma, in Sardegna. Ora sono circa trent’anni che vivo a Milano».

Cosa vorrebbe dire ai ragazzi che vogliono diventare infermieri?
«Lo facciano, non per vocazione né per missione – ribadisco – ma con entusiasmo e passione.Vorrei invitare i giovani a portare all’interno della professione i loro desideri, le loro aspirazioni, le loro idee. Siano tenaci. Se non si fanno scoraggiare e se non si spaventano, possono cambiare questa professione. Durante la pandemia la parola “infermiere” è stata molto utilizzata, siamo stati protagonisti.Adesso è il momento di chiedere il riconoscimento di spazi più ampi di responsabilità, di maggior esercizio delle proprie competenze. Credo che la volontà e la carica di un giovane e motivato infermiere possa essere il giusto motore per dare spinta al cambiamento, ormai inevitabile».

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