“Una donna con figli può fare carriera. Basta che ci siano un papà disponibile, organizzazione e forza psico-fisica…”

Successo al femminile. L’intervista alla Professoressa Angela Ferrari, ordinaria di linguistica italiana all’Università di Basilea

di Maria Concetta Di Paolo

Foto gentilmente concessa da Cooperazione

Una carriera straordinaria quella della Professoressa Angela Ferrari, ordinaria di linguistica italiana all’Università di Basilea e accademica corrispondente della Crusca.

Come è giunta a questo traguardo? Quali sono stati i momenti salienti della sua carriera?

“Una prima idea del mio percorso viene dalla geografia dei miei spostamenti. Sono nata a Locarno, dove i miei genitori, bergamaschi, sono immigrati a ridosso degli anni 60; ho studiato e mi sono addottorata a Ginevra; subito dopo, un anno di post-dottorato a Firenze; in seguito, incarichi di insegnamento a Ginevra e a Neuchâtel; poi il posto di professoressa associata a Losanna, infine nel 2005 professoressa ordinaria a Basilea. La mia vita privata e professionale ha come retroterra l’immigrazione e si spalma sulle tre regioni linguistiche della Svizzera, italofona, francofona e tedescofona. Durante l’università ho scoperto la linguistica, che all’epoca non aveva ancora l’importanza di oggi. È stato un colpo di fulmine, c’è stata subito la voglia di lavorare con la mia lingua madre. Anche se nel mio caso “lingua madre” è tutto dire: sono stata prima di tutto dialettofona; quando ero piccola, in Ticino, parlavo bergamasco in famiglia e ticinese con gli amichetti; l’italiano è venuto dopo. Ho preso una seconda laurea in linguistica italiana (la prima era in letteratura francese), poi il dottorato, e poi è iniziata la carriera. A parte il dottorato, la nomina basilese e quella ad accademica della Crusca, i momenti più belli della mia carriera sono quelli vissuti con i miei collaboratori, dai dottorandi ai ricercatori. Mi è sempre piaciuto formare i giovani, lavorare in gruppo, riflettere insieme: il legame affettivo che si crea lavorando ogni giorno gomito a gomito fa del bene anche alla ricerca scientifica; crea un sano spirito di emulazione, ci si aiuta, ci si scontra, si ride, a volte si piange insieme. I miei collaboratori sono e sono sempre stati per me una seconda famiglia: li ho accolti, cresciuti intellettualmente, ho dovuto anche imparare a lasciarli andare (cosa non sempre facile, come è con i figli). Ecco, forse l’investimento affettivo di cui ho detto è legato al mio essere donna”.

Le cattedre di Italianistica in Svizzera non godono di buona salute. Qual è la situazione attuale all’università di Basilea?

“Il fatto della cattiva salute delle cattedre di italianistica è diventato un topos, che non è del tutto vero e che non fa bene all’immagine dell’italiano in Svizzera. È una rappresentazione mentale controproducente: se mi si dice che l’italianistica sta male, perché dovrei sceglierla come disciplina di studio? Senza entrare nei dettagli, vanno fatte due osservazioni. Dal punto di vista qualitativo, gli istituti di italianistica svizzeri godono di un’eccellente salute: ognuno con le proprie specialità scientifiche, siamo dei centri di ricerca internazionalmente riconosciuti, che attirano dottorandi da tutta Europa e oltre; abbiamo fatto un’indagine l’anno scorso: esclusi i professori, tra dottorandi, post-dottorandi e ricercatori ci sono più di 150 persone che lavorano nell’ambito dell’Italianistica svizzera. Dal punto di vista quantitativo, negli ultimi anni c’è stata effettivamente una flessione degli studenti d’italiano, ma non più forte di quella che ha toccato in generale le scienze umane, le quali al giorno d’oggi fanno i conti con la competizione di discipline più redditizie e attraenti.  
Riguardo a Basilea, dopo un passaggio delicato in cui si è molto discusso delle cosiddette “kleine Fächer”, posso dire che il nostro Istituto sta più che bene, che si assiste a un incremento degli studenti in controtendenza rispetto a quello delle altre “piccole materie”. Col mio collega, Gabriele Bucchi, offriamo una formazione parallela in letteratura e in linguistica, ai livelli di Bachelor, Master, e Dottorato. Ci sono studenti che provengono dal Ticino e studenti per i quali l’italiano è lingua seconda o terza o quarta; studenti che si vogliono laureare in italianistica e studenti italofoni che vengono a raccogliere punti dalle altre facoltà come psicologia, biologia, medicina. Per gli studenti che non hanno l’italiano come lingua madre, il primo anno, abbiamo creato un percorso specifico di insegnamento grammaticale, che permette di rafforzare la loro competenza attiva della lingua italiana. Per quanto riguarda la ricerca in linguistica italiana, che è la disciplina che rappresento, ci occupiamo soprattutto di italiano contemporaneo d’Italia e Svizzera: delle varietà parlate, scritte, della lingua dei media nuovi e vecchi, della politica, delle scienze dure, della traduzione. Mi sta a cuore anche la relazione con la società: abbiamo per esempio in corso un progetto sull’italiano delle istituzioni svizzere in collaborazione con la Cancelleria federale di Berna.”

Lei è membro del Forum per l’italiano in Svizzera, ente che tutela e promuove lingua italiana, insignito del “Premio per il federalismo 2022”. Può farci un bilancio delle attività fatte e da fare?

“Sì, sono membro del Comitato del Forum, dove rappresento le cattedre svizzere di italianistica e presiedo il Gruppo cultura. Il Forum, presieduto dalla Consigliera di stato Marina Carobbio Guscetti, veglia alla corretta collocazione dell’italiano nel quadro del plurilinguismo svizzero. È un compito importante: perché se l’italiano in Svizzera è protetto dal punto di vista giuridico (i sociolinguisti ci dicono che sulla carta l’italiano in Svizzera è la lingua minoritaria più protetta al mondo!), i fatti sono più complessi e scivolosi. La parità linguistica dell’italiano rispetto alle altre lingue nazionali maggiori va monitorata, pretesa, conquistata sul campo: a questo collabora in molti modi il Forum, e non è sempre facile. Un fatto che gli sta a cuore è la valutazione dell’offerta dell’italiano nelle scuole pubbliche, che non sempre rispettano le leggi. Il Forum organizza poi diverse attività culturali, fuori e dentro le università, dove cerca di creare sinergie non scontate. Menziono, ad esempio, l’apertura dello Sportello del Forum, dove comunicarci errori e curiosità riguardo alle traduzioni verso l’italiano predisposte in Svizzera. Il link è sul sito del Forum”.    

A Basilea si è tenuto il convegno “Corsi di lingua e cultura italiana nel mondo: problemi e prospettive” per evidenziare le difficoltà degli enti gestori e dell’ufficio scolastico consolare nell’organizzazione dei corsi dopo le nuove misure di restrizione economiche. Cosa ne pensa?

“Questi corsi sono importanti: come racconta Franco Narducci nella miscellanea “Italianità plurale” (2023), soprattutto a partire dagli anni 70 sono stati determinanti per permettere ai nostri ragazzi di rimanere legati alla lingua e cultura italiana. Il mio interesse per questi corsi è concreto: fino a pochi anni fa il mio istituto ha offerto formazioni continue per ‘gli insegnanti del Consolato’, come li chiamavamo. Riflettevamo su questioni linguistiche e didattiche. La situazione oggi è più difficile, e non solo per le deplorevoli restrizioni finanziarie. Se si riuscisse a mantenerli e a potenziarli, i corsi andrebbero svecchiati, ripensati nella loro organizzazione generale (in dialogo con il Cantone Ticino), nei rapporti con le scuole pubbliche al di qua delle Alpi, nei loro contenuti. Infatti, sono cambiati i bisogni dei destinatari. L’immigrazione di oggi non è quella di ieri: è cambiata e a diversi livelli. Il legame con l’Italia, con la lingua, la cultura, la politica, è più forte: si torna in Italia più di frequente; i nuovi mezzi di comunicazione permettono contatti costanti; l’ambiente è in generale più internazionale. Si è poi rinnovata la didattica dell’insegnamento delle lingue. I corsi di lingua e cultura italiana sono necessari e preziosi; hanno bisogno per questo di sinergie qualificate tra il mondo della politica, dell’amministrazione, della scienza e della scuola. Il 3 e 4 luglio ci sarà a Firenze il congresso ‘Italianisti nel mondo’. Con il mio collega di Friburgo Paolo Borsa, rappresenteremo l’italianistica svizzera. Mostreremo qual è la situazione dell’italiano nelle università di un Paese (l’unico al di fuori dell’Italia) che ha l’italiano come lingua nazionale.”.

Quali suggerimenti darebbe alle giovani donne che vogliono intraprendere la carriera accademica? Quali sono le conquiste raggiunte e quali gli scogli che incontrano in tale ambito? Infine, è una carriera per chi ha famiglia?

“Più che dare consigli, posso parlare di me: non è stato facile conciliare lavoro e famiglia. Volevo stare il più possibile con mio figlio ma non sradicarlo dal territorio, non allontanarlo dagli altri affetti. Finché era molto piccolo, lo portavo con me: prima a Ginevra (dove è nato), poi a Firenze (aveva tre anni), poi ancora a Ginevra, poi a Losanna. Quando ho ottenuto il posto a Basilea, mio figlio aveva cominciato la scuola e aveva già i suoi legami: ho preferito spostarmi io e ho potuto farlo perché lavoravo al 50% e c’era un papà presente. Oggi, mi pare che, per una carriera accademica, il problema non sia più essere donna in sé, ma essere donna con figli. In effetti, tante mie colleghe – sia della mia generazione, sia più giovani ­­– non sono madri. Rispetto al passato, la situazione per certi aspetti è più facile, per altri resta difficile, per altri ancora è peggiorata. È più facile perché almeno qui da noi c’è maggiore rispetto: si tenta di venire incontro alle esigenze delle madri, per esempio organizzando riunioni a orari più sostenibili; ci sono più asili nido; più possibilità di ottenere sostegno finanziario per gli aiuti. Continua a essere difficile la gestione del congedo di maternità, per la sua brevità. Ci sono anche situazioni in cui non è prevista la sostituzione della persona in congedo maternità: ciò mette in difficoltà sia il gruppo di ricerca che deve cercare di tappare i buchi con soluzioni interne, sia la neomamma che si sente ingiustamente in colpa. Ciò che è diventato più difficile per le donne in carriera con figli è l’accresciuta richiesta di mobilità internazionale: se non sei mobile, se cioè non hai accumulato una quota sensibile di esperienze internazionali, oggi non sei competitivo. E non basta spostarsi dalla Svizzera nei paesi limitrofi: più vai lontano, più il tuo curriculum è apprezzato. Questo è un problema per le donne che hanno famiglia: mariti, compagni e figli non sono bagagli da caricare in modo indolore in aereo. Affinché una donna con figli possa fare una carriera accademica oggi, occorre prima di tutto un papà disponibile, una solida rete affettiva, una grande capacità organizzativa e una certa forza psico-fisica. La crescente sensibilità verso la questione della maternità, le nuove tecnologie e le abitudini sviluppate durante il periodo del COVID, ci fanno comunque intravedere possibilità di ulteriore miglioramento”.

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