Mano de obra: il mondo dei lavoratori fra ingiustizia e desiderio di riscatto

di Luca Bernasconi

Al recente Zurich Film Festival la menzione per la miglior regia è stata assegnata a Mano de obra (Mano d’opera), primo lungometraggio realizzato dal regista messicano David Zonana e in gara per il premio finale l’Occhio d’Oro. Il film racconta una vicenda di ordinaria ingiustizia. Un gruppo di muratori sta costruendo una villa in un quartiere alto della capitale quando uno di loro perde la vita cadendo da un’impalcatura. Il proprietario della casa non ha alcuna intenzione di risarcire la moglie incinta della vittima. L’indignazione per la prepotenza subìta e all’ordine del giorno in un paese che non tutela i lavoratori, scatena la collera del fratello del morto, il quale elabora un piano per mettere in atto una folle vendetta… Riportiamo qui di seguito alcuni stralci dell’intervista rilasciata al Corriere degli Italiani durante la rassegna cinematografica zurighese.

Come nasce l’idea di raccontare una storia ispirata alla realtà?

Vivendo in Messico, sono testimone diretto dei contrasti sociali che caratterizzano il mio paese e molti altri dell’America Latina. Questa disparità, che è sotto gli occhi di tutti, è diventata per me un’urgenza di cui sentivo il bisogno di parlare e le ho perciò dato corpo.

Un film è sempre il frutto di una costruzione. In che cosa consiste allora la sua autenticità?

Ogni film è diverso e ha esigenze altrettanto diverse. Mano de obra mette in scena il mondo dei muratori, che ha una sua complessità e delle dinamiche difficili da ricreare. Ho perciò pensato che il miglior modo per rendere autentica quella realtà sarebbe stato quello di scritturare dei veri muratori.

Quali sono le somiglianze fra la costruzione di una casa e la realizzazione del film dalla prospettiva degli attori non professionisti?

Tranne il protagonista, gli altri attori sono appunto muratori nella realtà. Hanno costruito molte case di lusso che non possono permettersi e che quindi non gli appartengono. In certa misura hanno riprodotto lo stesso modello mentale durante la realizzazione del film. Quando li informavo, attraverso il gruppo whatsapp che abbiamo creato, di come stesse andando il film, mi impressionava il fatto che ogni volta si complimentassero con me come se il film fosse esclusivamente mio, mentre gli elogi riguardavano anche loro. Ho potuto portare con me al Festival del Cinema di San Sebastián uno dei protagonisti, Hugo Mendoza. Al termine della proiezione è stato applaudito: ciò gli ha mostrato che il film appartiene anche a lui. Prossimamente gli altri muratori-protagonisti potranno vedere la pellicola al Festival di Morelia in Messico: voglio che la vedano sul grande schermo e alla presenza del pubblico affinché si rendano conto che Mano de obra è anche una loro costruzione.

Il film mette sotto la lente d’ingrandimento la condizione umana e i valori che la contraddistinguono.

In effetti l’aspetto della moralità delle persone è un elemento che riguarda tutti e che la pellicola mette in primo piano. La mancanza di empatia fra le persone, la corruzione, l’avidità e la rincorsa ai beni materiali sono tratti distintivi del nostro tempo. In tal senso gli spettatori di tutto il mondo non faticheranno a riconoscere la trasversalità di questi disvalori e il film diventa allora una sorta di specchio della nostra epoca.

La narrazione del film procede anche per allusioni: alcune scene accadono infatti fuori dallo schermo. Perché questa scelta?

A me piacciono i film in cui è richiesta la cooperazione dello spettatore, cui spetta il compito di ricostruire nella sua immaginazione ciò che è accaduto. Questo espediente lo costringe anche a proiettare qualcosa di sé, della propria personalità, sui personaggi della vicenda e sulle azioni che compiono, coinvolgendolo maggiormente.

Come vivi la sfida di realizzare un secondo lungometraggio dopo il successo degli esordi?

Ci sono registi che, dopo il successo del primo film, sentono la difficoltà di ricominciare perché condizionati dall’idea di dover creare qualcosa di nuovo che sia all’altezza dell’opera prima. Io non ho molta paura di un eventuale insuccesso: il cinema non è la vita, la vita è molto più ampia e offre sempre tante altre possibilità. Il mio secondo film lo affronto quindi come l’opportunità di creare qualcosa di interessante senza temere il confronto con l’opera d’esordio. Se ci si avventura in un progetto con il timore di fallire, si prenderanno inevitabilmente molte decisioni di tipo conservatore, finendo per realizzare un film che può anche risultare decente o forse mediocre, ma che rimane pur sempre uno fra i tanti prodotti. Io sono dell’avviso che fare un film è una grandissima opportunità e che bisogna prendersi il rischio di concretizzare l’idea che ti frulla in testa anche a costo di fare un buco nell’acqua. Preferisco un film che emerga per certe sue caratteristiche, anche qualora venisse ritenuto brutto, piuttosto che confezionarne uno ordinario che non incarna le mie idee e i miei desideri.

(PER LEGGERE LA VERSIONE INTEGRALE DELL’INTERVISTA, ABBONATI AL CORRIERE DEGLI ITALIANI)

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