Il vino italiano resiste alla crisi

Un mercato in ripresa, con risultati più che buoni nell’export e in aree come l’alta ristorazione, la grande distribuzione e l’e-commerce. È quello del vino tricolore, fiore all’occhiello della produzione agricola della Penisola in grado di movimentare un indotto che rientra a pieno titolo nel patrimonio culturale, oltre che economico, dello Stivale. L’andamento della campagna vendemmiale dell’autunno 2022 farebbe prevedere un’annata soddisfacente in termini quantitativi e sorprendentemente pregevole sul fronte della qualità. Le imprese del settore stanno vivendo da tempo una fase cruciale di ridefinizione della propria identità e del business. A gravare sulle realtà attive nel comparto, soprattutto su quelle piccole e medie a carattere familiare, sono i forti rincari di gas ed elettricità riflesso del conflitto russo-ucraino, in linea con le difficoltà generali. 

Una buona annata

Per il presidente di Unione italiana vini (Uiv), Lamberto Frescobaldi, “la vigna si è rivelata ancora una volta il pivot della filiera, dimostrando come anche con caldo e siccità si possa fare vini di alta qualità e volumi soddisfacenti”. Secondo le previsioni dell’Osservatorio Assoenologi, Ismea e Uiv, presentate di recente presso il Ministero tricolore delle politiche agricole alimentari e forestali, nonostante l’estate torrida e le temperature tuttora elevate, la produzione 2022 sembra promettere buoni risultati: dovrebbe attestarsi, infatti, intorno ai 50,27 milioni di ettolitri, la stessa quantità dello scorso anno (50,23 milioni di ettolitri di vino il dato Agea 2021), segnando un +3% rispetto alla media del quinquennio 2017-2021. Molto farà l’andamento meteorologico delle prossime settimane. In base ai dati diffusi durante l’ultima Milano Wine Week, a cura dell’Ufficio Studi di Fipe Confcommercio, la Federazione italiana dei Pubblici esercizi, dopo il blocco del 2020 a causa della pandemia, con ristoranti e locali chiusi, il 2021 ha fatto registrare una ripresa del mercato vinicolo, in particolare delle bottiglie di fascia elevata, classificate come premium e super premium. Le più recenti stime tratte da un’indagine dell’Area studi Mediobanca ci dicono che export e spumanti continueranno a spingere la crescita dei fatturati dei maggiori produttori di vino italiano in questo 2022 fino a quasi il 5%, con ricavi attesi per l’uno e per l’altro segmento, rispettivamente, a +5,7% ed esportazioni a +7,5 per cento. È un quadro sostanzialmente positivo quello che emerge, a dimostrazione della capacità del settore di saper reagire alla congiuntura economica negativa provocata dall’emergenza sanitaria iniziata due anni fa. Sul piatto, poi, ci sono alcuni temi particolarmente sentiti da operatori e imprese: la sostenibilità di prodotto e dei processi produttivi, in nome della qualità e della tutela ambientale, sempre più prioritaria, la transizione digitale, il rafforzamento delle dimensioni competitive delle aziende e le strategie di commercializzazione.

L’evoluzione dei vigneti italiani

Proprio l’Osservatorio di Unione italiana vini (Uiv), elaborando l’ultimo censimento agricolo dell’Istat aggiornato al 2020, ha delineato una rivoluzione morfologica in atto: in vent’anni le aziende vinicole tricolori sono diminuite di oltre 500 mila unità, ma la superficie vitata ha sostanzialmente tenuto (-11%, con -1% nell’ultimo decennio). Sempre secondo Uiv, sono 255mila le aziende viticole rimaste (a fronte delle 791mila del 2000): costituiscono il 23% del totale delle attività agricole censite (1,1 milioni in tutto). Nella classifica per incidenza del vino sul totale delle imprese vince il Trentino con un impatto del 43%, seguito dal Veneto (32%), da Toscana e da Emilia Romagna (31%). Sopra la media si assestano anche Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Campania, Marche e Umbria. Le aziende si presentano oggi con una veste più strutturata e una superficie media degli ettari vitati in crescita del 174%. Allo stesso tempo, in due decenni, le imprese hanno incrementato il valore delle esportazioni del 165%, divenendo primo comparto agricolo nel commercio estero e tra i principali promotori del surplus commerciale del made in Italy complessivo, dove incide per quasi il 14%. Si tratta di realtà che hanno puntato soprattutto sul rispetto delle varietà produttive, vera ricchezza del vino italiano. Secondo l’ultimo censimento Istat è la Puglia a contare il maggior numero di imprese (36mila); seguono, poi, Sicilia (30mila) e Veneto (27mila). Al Nord la superficie media della vigna è di 3,4 ettari, contro una media nazionale a 2,5 (erano 0,9 nel 2000 e 1,6 dieci anni dopo), concentrati soprattutto in Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Veneto, Toscana e Piemonte.

La crisi energetica arriva pure in cantina

Il contesto complessivo, tuttavia, per quanto tenace e resiliente, deve fare i conti inevitabilmente con le pesanti ripercussioni della situazione internazionale e della guerra in Ucraina. La crisi in atto non risparmia il settore, che non è energivoro, ma in molte sue componenti ne subisce conseguenze dirette. Produttori, industriali, cooperative e distributori si trovano a dover assorbire parte degli aumenti per non scaricarli completamente sui consumatori ed evitare una pericolosa depressione dei consumi. Per quantificare il danno, quella causata da gas ed energia sul vino italiano è una falla da quasi 1,5 miliardi di euro.
Secondo l’indagine dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly compiuta nella prima settimana di ottobre sulle imprese del Belpaese, il surplus dei soli costi energetici (+425 milioni di euro) e, di conseguenza, delle materie prime secche (oltre 1 miliardo in più per vetro, carta, cartone, tappi, alluminio) valgono da soli un incremento dell’83% rispetto ai budget di inizio 2022. A questi si aggiungono altre voci in aumento (vino sfuso, costi commerciali, forza lavoro) che portano a un aumento dei costi totali di quest’anno del 28%. L’incremento dei listini stimati dall’Osservatorio nei primi 9 mesi di quest’anno è del 6,6%, insufficiente per coprire una variazione al rialzo dei prezzi che le imprese hanno richiesto nell’ordine dell’11%. Il divario corrispondente è pari a 600 milioni di euro di costi non coperti da ricavi che il vino tricolore è costretto a sostenere per rimanere sul mercato.
A farne di più le spese sono le aziende di filiera, in particolare quelle di piccole dimensioni che producono, vinificano, imbottigliano e fanno tutto, o quasi, in proprio. In difficoltà anche gli industriali del vino e il mondo della cooperazione a causa di una dinamica che penalizza in particolare i segmenti basic e popular dell’offerta, a partire dagli spumanti di prezzo medio. La fascia premium, invece, ha la possibilità di assorbire meglio le variazioni e ha a che fare con figure maggiormente disposte ad accettare gli aumenti dei listini.

La scelta dei consumatori italiani
Per quanto riguarda il Belpaese, secondo i dati presentati dall’Ufficio Studi di Fipe Confcommercio (Federazione italiana dei Pubblici esercizi), gli italiani scelgono in gran parte i vini sulla base del territorio di provenienza (68,2%), apprezzano particolarmente le etichette certificate bio (42,2%), ma tengono anche sempre più d’occhio il prezzo della bottiglia (48,9%).

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