Perché la Cina appoggia il nuovo governo afghano?

In foto: Il ministro-degli Esteri cinese Wang Yi

Ad oggi è difficile prevedere per quanti giorni le immagini dei bambini afghani lanciati aldilà delle reti di recinzione per farli andare via dal paese e delle donne afghane ripiombate nel medioevo scuoteranno le coscienze occidentali. È parimenti complicato dire se i corridoi umanitari saranno alla fine condivisi a livello europeo, ma sarebbe disonesto stupirsi della decisione degli Stati Uniti d’America di ritirarsi dall’Afghanistan. Infatti, di ritiro delle truppe aveva parlato già il Presidente Obama nel 2009 quando, insieme all’invio di 30.000 nuovi soldati sul fronte afghano e di 5.000 rinforzi richiesti agli alleati della Nato, promise che da luglio 2011 sarebbe cominciato il ritiro delle truppe Usa. Di fatto dopo 12 anni la patata bollente è spettata a Biden, che ha dovuto mettere fine a una guerra che è costata 2400 vittime tra le truppe statunitensi e oltre 2000 miliardi di dollari.

Non entreremo nel merito delle motivazioni espresse dal Presidente e che, molto probabilmente, se fossero giunte alla fine dei primi 4 anni di mandato gli sarebbero costati la poltrona, ma è indubbio che ad oggi in Afghanistan si registrano due fatti: la mancata programmazione delle operazioni di rientro e la ripresa del potere da parte dei talebani nel giro di una settimana.

Ora a parte le considerazioni in ordine alla difficoltà di esportare un sistema di valori a prescindere dalla loro condivisione, questo secondo fattore impone una serie di interrogativi: chi ne trarrà beneficio? E come questo impatterà sugli equilibri internazionali?

Partendo dal presupposto che non esistono vantaggi improvvisi, ma che ogni cosa quando riguarda la geopolitica ha tempi di gestazione lunghissimi, possiamo dire che la super potenza favorita e non è una sorpresa, è la Cina.

In questa lunga estate anomala, gli osservatori internazionali hanno registrato, in data 28 luglio, l’incontro tra il ministro degli esteri cinese Wang Yi e una delegazione dei talebani. Ufficialmente Wang Yi e il mullah Baradar hanno discusso di sicurezza e del processo di pace afghano, con un invito da parte cinese rivolto ai talebani affinché “svolgano un ruolo importante nel processo di riconciliazione pacifica e di ricostruzione in Afghanistan”. L’incontro, presentato dalla stampa internazionale come evento eccezionale, in realtà è solo uno dei tanti tasselli di un consolidato percorso diplomatico che ha interessato informalmente la Cina e i talebani fin dall’inizio dell’occupazione statunitense, per poi spostarsi in epoca più recente sul piano formale.

I movimenti del colosso cinese possono facilmente far intendere a chi gioverà il ritiro delle truppe americane.

D’altro canto, se i talebani guardano agli attori regionali come partner e per un riconoscimento internazionale, la Cina ha più di un motivo per dimostrarsi così conciliante con il nuovo governo di Kabul. Tra quelli più lampanti è l’individuazione di un’area di influenza da sottrarre agli Stati Uniti e che, in un’ottica di competizione con l’India, consenta a Pechino di avere una continuità territoriale che dal Pakistan all’Afghanistan permetta di creare un ponte commerciale diretto con l’Iran e la Russia.

Vi sono poi gli interessi legati alla Nuova Via della Seta, che ha una diramazione in Pakistan e garantisce uno sbocco marittimo a sud: e un Afghanistan sicuro è una garanzia per gli investimenti cinesi perché un’amministrazione stabile e cooperativa a Kabul aprirebbe la strada a un’espansione della Nuova Via della Seta in Afghanistan e attraverso le repubbliche dell’Asia centrale.

In tal senso Cina e Pakistan hanno dichiarato che intensificheranno la cooperazione con il governo afghano, a sostegno di un processo di riconciliazione “a guida afgana, di proprietà afgana”. 

Inoltre, l’accordo con i talebani garantirebbe la sicurezza interna della Cina. Ci si riferisce a quel breve corridoio (76 km) che separa la Cina dall’Afghanistan ma che è in mano ad alcuni gruppi jihadisti della comunità uigura dello Xinjiang.

Pechino teme che l’Afghanistan possa essere usato come base logistica per i separatisti e gli jihadisti uiguri, con il sostegno degli stessi talebani. Ed è per questo che durante l’incontro del 28 luglio la Cina ha chiesto ai talebani di agire con determinazione e in qualunque modo per eliminare i gruppi uiguri presenti in Afghanistan, che Pechino considera una minaccia diretta alla sicurezza nazionale.

Infine, così come per l’Alaska, vi è il motivo economico: la Cina detiene la maggior parte dei diritti estrattivi dal sottosuolo afghano e l’Afghanistan, oltre ad essere ricca di idrocarburi – è cinese l’azienda che per prima ha estratto petrolio nel paese – è forse la più ricca miniera al mondo a cielo aperto di minerali preziosi e minerali rari, strategicamente importanti per l’economia cinese che avrebbe accesso diretto a una ricchezza dal valore potenziale di 3 trilioni di dollari. Va da sè che il dialogo con il nuovo governo di Kabul è necessario per lo sfruttamento del sottosuolo e qui entrano in gioco i talebani ai quali sarebbe garantito il riconoscimento politico e l’accesso agli ampi guadagni derivanti dalle attività estrattive e commerciali.

La Cina si muoverà in fretta, la storia ha insegnato che è meglio non fidarsi troppo delle strette di mano; d’altro canto, questi talebani sono gli stessi che pochi mesi fa hanno garantito agli Stati Uniti che avrebbero cessato le violenze per dialogare con il governo afghano. A questo punto sarà interessante capire come gli attori internazionali si muoveranno e se i rapporti tra Mosca e Washington saranno più distesi, come è prevedibile, magari con il benestare della Germania (che farà da garante per Putin) e dell’intera Europa, il colosso cinese inizierà a fare meno paura.

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