Armageddon Time, il tempo dell’Apocalisse e il senso di inadeguatezza

La recensione della pellicola scritta e diretta da James Gray

di Dario Furlani, inviato allo Zurich Film Festival 2022

Quando è stata l’ultima volta che ti sei sentito inadatto? Che non ti sentivi all’altezza della situazione? Sono queste le domande che pone il regista James Gray con il suo ultimo lavoro, Armageddon Time – Il tempo dell’apocalisse. Il cineasta newyorkese porta sullo schermo una storia dal fortissimo sapore autobiografico, che sfrutta a dovere la sua autenticità, con il risultato di riuscire a rappresentare un vasto spettro emotivo. Un risultato incredibile dati i temi trattati e la sinossi della trama, che definire banali è un eufemismo.

Siamo nel Queens, New York, in una famiglia borghese di origine ebraica. L’undicenne Paul è quello che si potrebbe definire un ‘ragazzino particolare’: sempre con la testa tra le nuvole, con nascenti tendenze artistiche e insofferente all’autorità dei professori, che spesso e volentieri finiscono per punirlo. La sua situazione scolastica peggiora notevolmente quando stringe amicizia con un coetaneo afroamericano di estrazione sociale inferiore, con cui finisce in guai piuttosto seri. I genitori decidono quindi di fargli frequentare una scuola per ricchi giovani rampolli, che creerà disagi sia in casa che a Paul stesso.

Gray non cerca di nascondere l’ispirazione autobiografica e fa entrare lo spettatore nelle dinamiche di una famiglia ebrea medio-borghese, insinuandosi in scene domestiche dall’intenso sapore realistico. Mentre su un piano si sviluppano le relazioni emotive tra i vari componenti del nucleo parentale, si costruisce pian piano, quasi in sordina, un complesso e affascinante sfondo politico-sociale. Il regista mostra cosa significa essere una famiglia ebrea negli Stati Uniti degli anni ’80, in una nazione che corre forsennata dietro al Sogno Americano, guidata da un Ronald Reagan in ascesa. Il capitalismo e il suo modello economico sono infatti la spezia che dà al film il suo tocco più amaro. Gray dipinge una carrellata di personaggi demoralizzati e frustrati per il proprio stato sociale, con la testa sempre alzata verso un orizzonte colorato però di colori spenti. È Darius Khondji – geniale direttore della fotografia non sufficientemente celebrato (Irrational Man di Woody Allen e Amour di Michael Haneke, per apprezzare appieno il suo stile) – a firmare la fotografia della pellicola. Khondji bilancia luce e colore, dando al film un’atmosfera fredda ma intima, in cui i personaggi sembrano guardare speranzosi al futuro, ma con uno sguardo opaco e vuoto.

Il vero protagonista e forza motrice del film è però il piccolo Paul, interpretato ottimamente dal tredicenne Banks Repeta, che dona al personaggio una sensibilità in grado di bucare lo schermo. La regia di Gray rimane sempre a distanza ravvicinata e riesce a valorizzare i tratti del viso preadolescenziale, cristallizzando il periodo di formazione vissuto dal ragazzo. Menzione speciale per un dolente Anthony Hopkins nel ruolo del nonno, figura fondamentale nelle dinamiche emotive del protagonista. L’attore britannico anima il proprio personaggio con un’energia acre che con una manciata di battute caratterizza appieno la figura. Non si tratta di un ruolo fondamentale nella sterminata carriera di Hopkins, ma dimostra quanto un gigante del suo calibro possa dosare il proprio contributo al film, supportando nomi minori senza adombrarli.

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