Bagagli e migranti #1

bagagli e migranti

Gina, 1946: da Nembro a Niederurnen e ritorno

di Paolo Barcella

Un maschio solo con un passaporto in mano e poche lire in tasca è generalmente il protagonista della memoria collettiva e dei racconti dedicati all’emigrazione italiana nella Svizzera del secondo dopoguerra. Non tutti sanno che, in realtà, tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta molti cantoni della Confederazione ospitarono soprattutto giovani donne, migranti solitarie, alla ricerca di un salario buono per mantenere se stesse e la famiglia d’origine, presso la quale venivano inviati tutti i risparmi.

Da Nembro – paese oggi tristemente famoso perché martoriato dal COVID – Gina partì ventenne, nel 1946. Nella Valle Seriana si erano insediate alla fine dell’Ottocento numerose ditte svizzero-tedesche, come la Honegger di Torre Boldone. Nel dopoguerra quelle ditte reclutarono migliaia di lavoratrici da spedire presso le fabbriche di imprenditori amici elvetici, bisognosi di manodopera. Ricordava Gina: “Finita la guerra aspettavo che mi chiamassero per la Svizzera. Avevo fatto domanda, eravamo in venticinque… c’era una signora del villaggio Crespi di Nembro che si interessava, una certa Capretti, che i suoi figli facevano i farmacisti… lei ci ha fatte arrivare in Svizzera tramite la Honegger di Torre Boldone: in 47 siamo andate là a prendere i passaporti”.

Quando Gina partì, quindi, non erano ancora stati firmati gli accordi bilaterali del 1948 e i controlli sanitari al confine risultavano particolarmente rigidi, difficili da sostenere, soprattutto per le giovani donne provenienti dal mondo contadino e cattolico del tempo. Proprio per questo, Gina raccontava quell’esperienza come uno dei momenti più umilianti della sua vita: “Alla dogana c’era un signore che ci ha ricevuto. Ci hanno portate tutte in una grande sala. Da una parte c’erano delle docce… noi eravamo in venticinque: donne che avevano lasciato i bambini, una che aveva appena finito di allattare, quasi tutte sposate… eravamo solo due o tre ragazze nubili… una di Lovere, due noi di Nembro e quasi tutte bergamasche delle venticinque… anche da Lovere, da Clusone. Ci hanno messo sotto quelle docce, tutte insieme. Io sono rimasta impressionata. Ci hanno buttate lì come i maiali… Poi chiusa la porta han fatto venir giù l’acqua. Tutte nude… mi sarei messa a piangere… poi, dopo uscite, hanno aperto una porta, ci hanno buttato addosso una coperta a tutti una a una abbiamo dovuto andare all’ispezione… c’era un dottore e un’infermiera… e una a una dovevano aprire la coperta perché dovevano vedere se avevamo delle malattie o i pidocchi… e io dicevo: qui comincia male!”

Di segno opposto furono invece le tappe successive. In un primo tempo, Gina abitò in un convitto messo a disposizione dall’azienda. Sebbene apprezzasse quella soluzione, un conflitto scoppiato tra le sue colleghe e il datore di lavoro – legato alle regole per l’uso degli spazi – portò alla chiusura del convitto. Gina si trasferì così presso una famiglia benestante svizzera che, in cambio dei lavori domestici, offriva alla giovane nembrese vitto e alloggio. Dal momento che la famiglia da mantenere in Italia era numerosa, Gina lavorava anche la domenica pomeriggio, come bigliettaia presso il cinema della cittadina elvetica. Proprio lì conobbe Edy, un giovanotto immigrato, ma… di origini tedesche. Innamorati, Gina e Edy si sposarono e rimasero in Svizzera fino a quando, quasi quarantenni, si trasferirono a Nembro per aprire una pensione che tutti, in paese, hanno conosciuto come la “pensione del tedesco”.

Quando ho raccolto la sua storia, ormai quindici anni fa, Gina era una vispa ottantenne. Ripercorreva la sua storia con emozione e con l’evidente orgoglio di una donna che aveva saputo resistere alla fatica del lavoro in terra straniera, che si era arricchita nel confronto con una cultura lontana ma che, contemporaneamente, aveva saputo contribuire alla sopravvivenza della famiglia d’origine, ne era stata per qualche anno il perno economico e, alla fine, aveva portato il suo amore nella valle degli avi, lasciandole in eredità una discendenza con un cognome tedesco.

Continuare
Abbonati per leggere tutto l'articolo
Ricordami