COVID: è anche una questione di quantità. Lo dice la medicina

Non dobbiamo stupirci se le voci che abbiamo principalmente sentito in questi mesi di pandemia sono state quelle dei politici. L’assalto velocissimo del virus al nostro sistema sanitario e a quello dei Paesi vicini si è ovviamente tramutato altrettanto velocemente in un problema organizzativo (come far fronte all’emergenza), poi sociale (come gestire il contagio e la paura) e quindi politico (quali misure prendere e come farle attuare).

Così, all’improvviso, a parlare di virus (che è una cosa che di solito fanno i ricercatori e i medici) si sono messi i politici, e se non fosse per la tristezza causata dalle decine di migliaia di morti, sarebbe affascinante rivedere la sequenza degli annunci quotidiani nelle televisioni dei diversi Paesi e l’effetto del panico scatenato dall’invisibile COVID tra i potenti della terra: Boris Johnson che da Londra dice “ci spiace per i vecchietti che moriranno ma a parte questo non è una tragedia”, Trump che annuncia di prendere la clorochina tutti i giorni senza che se ne sappia il perchè, il premier di Praga che comunica al mondo la chiusura totale della Repubblica Ceca per due anni.

Non si tratta di fare della facile ironia, anzi tutti abbiamo notato che persino all’impassibile Conte sono spuntati i primi capelli bianchi in poche settimane tanto tremendo è stato lo stress al quale si è trovato esposto. Nessuno di noi, credo, avrebbe voluto trovarsi al posto dei nostri leader politici negli ultimi tre mesi.

Ma da chi ricevevano i nostri governanti le informazioni da comunicare in TV? Da altri due gruppi importanti di “esperti” (le virgolette sono d’obbligo perché non tutti si sono rivelati all’altezza della situazione): gli epidemiologi e gli economisti. I primi osservano l’andamento delle malattie dall’alto (epi vuol dire sopra e demos vuol dire popolo, in greco). A volo d’uccello vedono tanti pallini grigi (come la BCC si è messa a rappresentare gli individui sani) che diventano rossi (contagiati) e ci raccontano di come il virus sale o scende di velocità, disegnano curve, fanno proiezioni. Il tutto sempre a livello di popolazioni, mai di singolo individuo.

Gli economisti fanno altrettanto ma dal punto di vista degli indicatori sociali più importanti e provano a descrivere e a prevedere le conseguenze della pandemia. Ci dicono chi perde terribilmente il lavoro (tutti gli occasionali e gli stagionali, per esempio) e chi invece inaspettatamente raddoppia o triplica i guadagni (Amazon e Netflix tanto per citare i primi due). In realtà gli economisti non studiano le conseguenze del virus ma piuttosto del lockdown, cioè di quello che consegue alla chiusura delle nostre attività.

Ma se gli epidemiologi studiano le popolazioni e gli economisti le conseguenze sociali, chi studia la persona reale contagiata dal coronavirus?

Il singolo classico signor Giovanni Rossi o la signora Maria Bianchi che sentono febbre e tossiscono da giorni e temono di non riuscire più a respirare: chi lo studia?

Qui è dove la medicina si riprende il suo ruolo e anche se per ora non parla ancora in TV si prepara e medita bene sull’accaduto. Interessante notare che a parlare dell’epidemia sono stati un po’ ovunque i “grandi scienziati” ascoltati soprattutto pensando alla loro esperienza, con il risultato che hanno prevalso le voci di “grandi vecchi”, come il professore cinese di 82 anni che il governo mandò a Wuhan a controllare che cosa stava succedendo, o il prof Fauci che consiglia Trump, o Montagner che si fa intervistare sui social e di anni deve averne ormai 90.

Chi invece sta studiando, per ora in silenzio, il signor Giovanni Rossi e la signora Bianchi, sono i giovani medici di tutto il mondo, in contatto fra loro con email e whatsapp. Aveva solo 31 anni il medico cinese che diede l’allarme e che fu sgridato dalla polizia mentre ora che è morto ha ricevuto l’encomio di Stato. E hanno fra i 30 e i 40 anni i medici che si stanno ponendo le nuove domande: 1. Da cosa dipende il rischio di infezione? 2. Da cosa dipende la gravità della malattia? 3. Come facciamo a prevedere la gravità della malattia e il rischio di contagio?

Paradossalmente questa riflessione che viene da chi lavora in ospedale (al fronte) ha trovato la sua voce non in un reparto di malattie infettive ma di oncologia americano, dove il  giovane Siddharta Mukherjee (noto per aver scritto il best seller “L’imperatore di tutti i mali”) affida le tre domande non a una rivista specializzata ma al mitico New Yorker, quasi a voler essere sicuro che la medicina abbia la libertà di parola di cui ha bisogno, al di là delle pressioni a produrre in fretta un vaccino.

La prima domanda viene da un concetto fondamentale della medicina, quello di “dose”. Se prendi una pastiglia di sonnifero fai una lunga dormita, se ne prendi venti muori. Sarà così anche con il virus? Si comincia a pensare di sì, il che vuol dire che se sei seduto di fronte a una persona contagiata che fa uno starnuto hai un po’ di rischio di infettarti, ma se guidavi un’ambulanza a Bergamo in marzo quel po’ di rischio diventa certezza. Quindi la risposta è sì, il rischio non è casuale e non è uguale per tutti, ma dipende dalla “dose” di virus alla quale si viene esposti.

Anche la seconda domanda ha a che vedere con la “quantità”. L’infezione è come una gara in cui il virus cerca di moltiplicarsi il più in fretta possibile e il sistema immunitario del signor Rossi cerca di bloccarlo producendo anticorpi altrettanto in fretta. I giovani hanno ovviamente un sistema immunitario più efficiente degli anziani. Ma allora perché ci sono stati dei centenari che hanno preso il virus e sono sopravvissuti e dei giovani infermieri che sono morti? Evidentemente perché la “dose” di virus presa da quegli anziani era bassa mentre quella degli ospedalieri era altissima. In altre parole, il virus ha ucciso soprattutto gli ultraottantenni perché il loro sistema immunitario non funzionava quasi più a causa dell’età, ma se di virus ne spargete grandi quantità, anche il più forte e sportivo giovanotto soccomberà.

E così si arriva alla terza domanda e al vero cruccio della medicina. Come facciamo a misurare la “dose di virus”?  Perché la convinzione è che la dose c’entri eccome, sia per il rischio di infezione sia per determinare la gravità della malattia.

Nei nostri reparti di radiologia tutto è cambiato da quando abbiamo imparato a calcolare la “dose di radiazioni” assorbita da medici e infermieri che vi lavorano. Oggi è possibile essere molto precisi in materia, allontanare temporaneamente dal reparto chi ha già assorbito troppe radiazioni, regolare i turni, calcolare le disponibilità senza correre rischi.

Purtroppo l’unico strumento che abbiamo al momento, quello del tampone faringeo (naso e parte alta della bocca), non è abbastanza affidabile dal punto di vista della quantità di virus. Ci dice certamente se c’è o non c’è virus, ma non ci dice quanto ce n’è e quindi non possiamo sapere né se il signor Rossi è poco o molto contagioso e neppure se la sua malattia sarà leggera o grave.

In conclusione, man mano che il panico diminuirà le nostre conoscenze aumenteranno e dopo il disorientamento iniziale la medicina sta già ricominciando con pazienza a unire gli indizi, ad approfondire le ipotesi, a riflettere su quanto già imparato nel passato.

Come dice Mukherjee, è essenziale continuare a studiare come il virus si muove nelle popolazioni ma è ora di cominciare anche ad osservare come si muove dentro i nostri corpi di individui.  Contare fra i tanti e contare nel singolo: perché entrambi contano.

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