Donne, dignità e diritti. Quanto conta l’indipendenza economica

di Giovanna Guzzetti

Greta Beccaglia. Per chi si appassiona, o anche solo si interessa e si informa, di vicende italiche, bastano questo nome e cognome a vanificare tutte le parole, scritte e/o pronunciate, che sono state utilizzate (più cinicamente, sprecate) solo pochi giorni fa, il 25 novembre, in occasione della giornata internazionale della violenza contro le donne.

Quella dei femminicidi in Italia è sicuramente una emergenza nazionale: ne possiamo contare oltre 100 fino a questo punto del 2021 e più di 80 sono state vittime in ambito affettivo/familiare. Qualcuna (ma non molte, poco più del 10%) ci aveva anche provato a denunciare, per mettere una sorta di “argine” ufficiale alle prepotenze di un uomo (spesso il suo, magari in passato) ma non è bastato.

Convegni, dossier, articoli, dichiarazioni importanti anche del Governo per dire che tutto questo è inaccettabile e che le donne vanno protette. Questo accade giovedì 25 novembre, giornata in cui ci si ubriaca più di acquisti grazie al Black Friday che di spirito civico.

È giovedì. Nel weekend immediatamente successivo, Greta Beccaglia diventa, suo malgrado, una notorietà. Giornalista sportiva di Toscana Tv viene molestata (leggi palpeggiata) in diretta da un “tifoso” – fatto di per sé esecrabile – ma quel che è peggio viene, in sostanza, esortata dal conduttore (maschio) a lasciar perdere… È davvero troppo! Ma quel che suona davvero eccessivo sono le uscite dei leoni da tastiera che ridimensionano il gesto del tifoso quarantacinquenne, quando non accusano Greta di leggerezza, quel famoso e odioso “essersela andata a cercare” perché una ragazza (giovane e carina) ha osato – sì osato – andare sugli spalti dove brancolano queste orde di lupi. Parole che io stessa ho letto sui social e che, a dir poco, mi han provocato l’orticaria…

Non ci siamo. Appartengo a una generazione che la sua liberazione l’ha cercata e conseguita studiando e lavorando. Sodo. Ci hanno affibbiato in modo dispregiativo l’epiteto di femministe, ma si contano sulle dita di una mano quelle che sfilavano con gonnelloni e sabot rivendicando, con gesti eloquenti, la gestione del proprio corpo. Tutte le altre avevano intrapreso anche fior di professioni per poi tornare a casa e vestire, in toto, i panni delle madri di famiglia. Dalle strategie al pannolino del pupo, senza soluzione di continuità. Lavorare il doppio (quando bastava) per valere sempre 1, come membro attivo della società. Sforzi del tutto ignoti ai maschi…

Ma quel lavoro va benedetto! Nei dibattiti imbastiti intorno a questo 25 novembre si è parlato molto di violenza economica perpetrata ai danni delle donne. Molto si è detto di recente in termini di aiuti ai centri antiviolenza, soprattutto per denunciarne la carenza. Un monitoraggio di Action Aid ha evidenziato come i provvedimenti emergenziali presi durante la pandemia abbiano faticato a trovare i destinatari: dei tre milioni previsti dal decreto-legge Cura Italia, solo l’1% è arrivato a Centri antiviolenza e Case rifugio (pari a 25mila euro). Circa 142 strutture hanno ricevuto i 5,5 milioni inseriti nel Bando d’emergenza, ma la grande maggioranza non ha potuto accedervi. E il Reddito di Libertà (pari a 400 euro mese per un periodo limitato nel tempo) è stato attivato dopo 15 mesi. L’introduzione di questo strumento è sicuramente opportuna in questa fase storica, e non solo per la presenza del Covid.

Quelle che però vanno perseguite con determinazione e riconoscimento sono le misure per la crescita del genere femminile che, è inutile girarci intorno, ha il suo fulcro nella indipendenza economica e, quindi, nel lavoro. Ma se la nostra Costituzione, nell’immediato dopoguerra, stabiliva, all’articolo 1 (nientemeno) che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, perché questo monito non deve valere anche per l’altra metà della popolazione?

È vero sì che la mano pubblica ha l’obbligo di promuovere strutture ed azioni che favoriscano la crescita femminile (non fosse altro che per motivi demografici ed economici, dall’evidente legame intrinseco), ma il primo motore, direbbe Aristotele, è quello del singolo. Per potere dare forma alla propria vita e affrancarsi dalla dipendenza, sotto ogni aspetto, da un partner. Che non è mai un padrone ma solo, ribadisco solo, un compagno (di vita o almeno di un tratto della stessa). Con l’avvertenza che compagno non significa padrone, dominatore ma, come ci ricordano ancora una volta le nostre radici latine, “colui che ha il pane (pani-) in comune (com)”.

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