Gli italiani emigrati e la Circoscrizione estero

di Franco Narducci

Se fosse ancora in vita, Mirko Tremaglia sarebbe stato profondamente ferito dal risultato del referendum del 20-21 settembre scorso e avrebbe attaccato con impeto la partitocrazia, che solitamente accusava di aver bloccato per decenni qualsiasi tipo di apertura ai “sacrosanti diritti degli italiani emigrati”. Ne sono certo, si sarà rivoltato nella tomba di fronte al voto degli italiani all’estero che hanno avallato lo scempio compiuto sulla Circoscrizione estero: in totale, quasi l’80% degli elettori ha detto Sì alla riduzione della rappresentanza parlamentare, superando di gran lunga quelli residenti in Patria! 

Sono stato uno dei protagonisti che, assieme a Tremaglia, crearono le basi per la lunga stagione delle “larghe intese”, un’operazione che nel Parlamento italiano consentì di superare le divisioni e ancor di più le diffidenze che per decenni avevano sbarrato la strada a qualsiasi genere di riforma che consentisse agli italiani emigrati di partecipare alla vicenda politica del loro Paese. Le larghe intese ebbero successo e portarono alla riforma di ben tre articoli della Costituzione italiana perché al centro di tutto c’erano due termini alti, “i diritti” degli italiani emigrati e “l’effettività”, cioè la garanzia di poterli esercitare.

Peter Amman, docente alla Scuola internazionale di psicologia analitica di Zurigo, produsse nel 1970 un celebre documentario, “Il treno rosso”, sugli effetti feroci del capitalismo svizzero degli anni Settanta. Il documentario, tra contrasti musicali e visivi magistrali, inizia con le immagini di un treno che parte da Zurigo diretto in Italia, stracarico di italiani che tornano a casa per esercitare il loro diritto di voto. Un desiderio di partecipazione alla vita democratica del loro Paese che, tuttavia, con il passare degli anni si era molto affievolito.  

Con l’istituzione della Circoscrizione estero e della rappresentanza parlamentare degli italiani emigrati si andò oltre l’effettività del diritto di voto. Il vento che spirava alla fine degli anni Novanta, nel pieno dell’espansione globale e alla vigilia del Grande Giubileo del 2000 che avrebbe portato l’immagine dell’Italia in ogni parte del mondo, spinse la politica alle riforme per un reale coinvolgimento delle comunità emigrate in un progetto di promozione complessiva del “sistema Italia”, e anche per la loro chiamata in causa nella politica estera e culturale dell’Italia.

Numerose analisi sul voto degli italiani residenti all’estero sono state fatte all’indomani del voto referendario ed altre, si presume, seguiranno nelle prossime settimane e mesi. Perché nonostante il ripetuto appello di ogni grado di rappresentanza degli italiani emigrati (eletti all’estero, CGIE, Comites, grandi associazioni di massa) a votare No al taglio dei parlamentari, il risultato è stato fallimentare: come dicevo, i quattro quinti degli elettori hanno votato a favore della riduzione del numero dei parlamentari. Ed è davvero sintomatico che in Svizzera e in Germania, le nazioni dove risiedono un elevato numero di italiani (nonché meta principale dei nuovi flussi migratori dall’Italia) e che possono contare ancora su un discreto senso della partecipazione e dell’aggregazione politica, le percentuali a favore del Sì siano state stratosferiche, circa l’85%.

Si potrà obiettare – e alcuni opinionisti lo hanno già fatto – che la percentuale dei votanti (28,96% in Svizzera e 20,86% in Germania, addirittura il 14,04% in Belgio) è stata irrisoria, ma equivarrebbe a nascondere la polvere sotto il tappeto, poiché la partecipazione è in caduta libera da alcuni anni e in occasione delle ultime elezioni per il rinnovo dei Comites è stata insignificante. Simbolo di un malessere ben più profondo di come alcuni tentano di rappresentare e si spiega in buona parte con “i diritti traditi degli italiani all’estero”, che non trovano ascolto nelle sedi istituzionali della Repubblica o lo trovano nei discorsi ufficiali di fine anno e nel profluvio di comunicati che pochi leggono. 

Gli esempi non mancano; per ragione di spazio ci limitiamo soltanto ad alcuni. Nella fase di gestazione della voluntary disclosure (articolo 1 legge 186/2014 e successive), nessuno si è fatto carico degli italiani residenti all’estero e di quelli rientrati in Patria, ma con solidi legami (non solo affettivi!) con la nazione in cui hanno lavorato, pagato le tasse e risparmiato una vita intera, spesso con indubbi benefici per l’Italia. In molti casi sono stati trattati alla stregua dei grandi evasori fiscali.

Ancor peggio è andata con l’accordo sullo scambio automatico di informazioni sottoscritto dal Ministero italiano dell’Economia e delle Finanze con l’Amministrazione Federale svizzera delle contribuzioni. Tanti italiani emigrati hanno dovuto sborsare decine di migliaia di franchi (retroattività di 10 anni), a beneficio della Svizzera, per tasse sulla casa posseduta in Italia. Casa costruita con risorse da lavoro regolarmente e ripetutamente tassate, oppure ereditata dai genitori ex-emigrati. Naturalmente nelle altre nazioni europee la situazione non è dissimile.

E che dire dell’esenzione dell’IMU sulla casa posseduta in Italia dai nostri emigrati, abolita di recente con motivazioni dubbie e che comunque tradisce lo spirito dell’art. 3 della Costituzione italiana e ripropone la dicotomia tra cittadini di serie A e B, o della mai risolta questione dell’usucapione relativa ai nostri emigrati, derubati in molti casi di quello che possedevano in Italia grazie a quel perfido meccanismo.

Nonostante tutto occorre respingere il tentativo già in atto di buttare l’acqua sporca con il bambino dentro! Occorre una riflessione a tutto campo, che tenga conto dei processi d’integrazione molto avanzati e soprattutto della qualità della rappresentanza parlamentare, che non può essere gestita esclusivamente dalle segreterie dei partiti. Occorre soprattutto tornare ad ascoltare le comunità fuori dagli schemi che oramai non fanno più testo.

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