Il grande potere della musica (anche in ambito clinico)

L’intervista a Gabriella Giordanella Perilli e a Ellery Latorre, autori del volume “La Canzone che cura”

di Commissione Volontariato, Beneficenza e Pari Opportunità del Comites di Basilea

“La canzone che cura” è un libro che descrive, sostenuto da riferimenti teorici e scientifici, gli effetti della canzone nell’universo emotivo-cognitivo di ciascuno di noi, senza differenza d’età. Ecco cosa ci hanno spiegato gli autori del volume, Gabriella Giordanella Perilli e Ellery Latorre, psicoterapeuti e musicoterapeuti.

Come nasce il libro?

“George Eliot scrive: ‘La vita sembra procedere senza sforzo quando sono pieno di musica’. Questa frase è stato il significato della nostra vita, prima ancora che diventassimo psicoterapeuti e musicoterapeuti. È stato quindi naturale usare la musica e le canzoni nella nostra pratica clinica, conoscendone il potenziale e la loro efficacia complementare negli interventi riabilitativo-terapeutici”.

La musica ha anche effetti sul sistema neurologico?

“Fin dagli anni 80, le neuroscienze hanno indagato sulle risposte del cervello alla musica. Man mano le ricerche si sono evolute disponendo di metodi di indagine più elaborati, atti a mostrare cambiamenti funzionali e strutturali in diverse aree cerebrali nell’ascolto della musica. Nel caso dell’uso della musica e delle canzoni a scopo riabilitativo e/o terapeutico, l’altra componente fondamentale per favorire una modifica significativa è la relazione che si sviluppa tra le persone: l’essere umano cresce e si sviluppa a contatto e nell’interazione socioaffettiva con gli altri, in un sistema di attaccamento e cura. Un caso reale può servire a comprendere cosa può accadere nella pratica clinica: Paolo ha 16 anni, è tetraplegico per cause perinatali, ed è ricoverato in una clinica a lunga degenza. Non parla ma emette suoni associati a suoi bisogni fisici (bisogno di evacuare, fame) o a emozioni (piacere). Con la co-terapeuta, inizialmente cantiamo una canzoncina, inserendo il suo nome. Per essere in sintonia e sincronizzarci con Paolo, eseguiamo la stessa canzone cambiando il tempo (velocità) di esecuzione e l’altezza della voce. Lo facciamo con o senza strumenti, come la tastiera e il violino. Ripetiamo le varie proposte e notiamo che Paolo emette dei vocalizzi e gira la testa verso di noi solo e ogni volta in risposta alla canzone accompagnata dal violino sulla corda di sol, cantata con tono di voce medio, a una velocità moderata in accordo con il ritmo del suo respiro. Inoltre, Paolo mostra attenzione (volge la testa e guarda), interesse (mantiene la posizione) e muove, specialmente il braccio e la mano sinistra, per toccare e far suonare le campane tubolari, suonate vicino a lui dalla terapeuta. Possiamo quindi affermare che Paolo passa da una reazione data a uno stimolo sensoriale (il suono) a una risposta cognitivo-emotivo-motoria”.

Reagiscono tutti allo stesso modo o c’è chi trae maggiore beneficio dalla musica?

“Ogni persona ha una sua risposta alla musica e alle esperienze musicali proposte nell’interazione terapeutica. Inoltre, l’individuo va considerato nella sua attuale situazione di vita, per comprenderne bisogni, risorse, limiti, interessi musicali, difficoltà, valori, e così concordare scopi e obiettivi. Dalla nostra esperienza e dalla letteratura internazionale, possiamo dire che ognuno può trarre benefici da esperienze terapeutiche con la musica. Un’eccezione potrebbero essere i soggetti con anedonia musicale, i quali non provano risposte di piacere come ricompensa emozionale alla musica.  Ma pure in presenza di questo disturbo neurologico, si può intervenire sulla componente psicologica ed emotiva, associata al “come” la persona vive tale disabilità. Carla, 60 anni, frequenta un Centro di Igiene Mentale per una forma di disturbo depressivo maggiore. Per lei partecipare agli incontri di musicoterapia di gruppo è un’imposizione intollerabile. Dice di non sopportare la musica. Le chiedo se può sedersi fuori la stanza, libera di andarsene quando vuole. Accetta. Dopo alcune volte, entra affermando di farlo perché interessata alle nostre conversazioni. Un giorno, una partecipante sceglie la canzone “Mamma”, cantata da Claudio Villa. Carla scoppia a piangere. Poi ci spiega che da piccola la madre le diceva che lei aveva “il cuore di pietra” perché non sapeva cantare e a scuola l’avevano esclusa dal coro. Il lavoro ha riguardato il vissuto che Carla aveva associato, nel passato, alle esperienze relazionali per cui si era sentita svalutata e rifiutata e, quindi, non degna di essere amata. L’esperienza interpersonale vissuta al Centro le aveva permesso di modificare l’immagine di sé come persona “amabile”, nonostante non gradisse la musica”.

Esperienze con pazienti dementi o malati di Alzheimer?

“Con questi pazienti ho utilizzato attività musicali di ascolto e canto, specialmente di canzoni soggettivamente significative; sono queste che fanno emergere ricordi, aiutano a modificare emozioni negative (ansia, rabbia, depressione) e la bassa valutazione che gli anziani con difficoltà hanno di sé e degli altri. Si tenga presente, nel programmare esperienze con le canzoni, che le emozioni, almeno nelle prime fasi del disturbo, sono in genere ancora attive durante il processo degenerativo dovuto a demenza o Alzheimer, ecc. e che le emozioni colorano e danno significato all’esistenza umana”.

Vi è differenza fra vari generi musicali?

“Sì. Ogni musica nasce in uno specifico contesto storico, geografico e culturale. Per noi psicoterapeuti e musicoterapeuti i gusti musicali, i generi, le musiche e le canzoni preferite e non tollerate dai clienti sono molto importanti perché permettono di avere informazioni preziose che ci consentono di sintonizzarci rapidamente con il soggetto e instaurare la relazione d’aiuto”.

È necessario usare uno strumento musicale o anche con il canto e la danza si ottengono gli stessi effetti positivi?

“Secondo noi, sulla base della nostra esperienza, gli strumenti musicali sono necessari per arrivare a obiettivi specifici. Io sono diplomato in violino ma sono diventato polistrumentista per avere più possibilità di coinvolgere il soggetto. Credo che la voce sia lo strumento principale che abbiamo a disposizione e che la danza sia utile quando è possibile eseguire il movimento. Ho avuto una ragazza sulla sedia a rotelle che ha voluto comporre con me una canzone scegliendo tutti gli strumenti e suonandone alcuni perché voleva ‘far ballare’, coinvolgere gli altri con un ritmo travolgente e un messaggio verbale positivo”.

Suonare uno strumento ha effetti positivi anche su memoria, capacità di concentrazione e coordinamento?

“La musica è un potente stimolatore neuronale e suonare uno strumento promuove la neuroplasticità e aumenta le connessioni cerebrali. Ho lavorato in una comunità con ragazzi che avevano storie drammatiche e, come direbbe J.S. Bach, la musica può aiutare a non sentire dentro, il silenzio che c’è fuori”.

Ci sono risultati di ricerche riferite a varie fasce d’età, bambini, giovani, adulti, anziani?

“Nel libro citiamo molte ricerche scientifiche che riguardano l’essere umano in tutte le fasi della sua esistenza. Io ho realizzato un laboratorio di musicoterapia e uno studio con pazienti affetti da Parkinson e i risultati dimostrano un abbassamento del livello dell’ansia e un miglioramento del tono dell’umore e del grado di benessere generale. La musica è uno stimolo difficile da “misurare” e credo che, aldilà della scienza, le conferme più importanti le abbiamo avute dalle persone con cui lavoriamo”.

Che effetti ha sull’umore (soddisfazione, tranquillità)?

“La musica ha da sempre finalità ricreative e di rilassamento, ma è anche uno stimolo dinamico e complesso che porta a marcati cambiamenti nelle emozioni e nel movimento. Benché la risposta alla musica sia quasi universale, lo stimolo musicale viene valutato dal contenuto soggettivo della mente di ciascun ascoltatore. E, come riportato nel libro, teorie scientifiche ed esempi di esperienze illustrano che cambiando le emozioni vengono pure modificati pensieri inadeguati su sé stessi e sulla realtà”.

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