Il mio incontro con Pier Paolo Pasolini

di Albino Michelin

Il nostro primo colloquio, nel 1962 a Cinecittà, ebbe come
oggetto il suo film “Il Vangelo secondo Matteo”.
Non ricordo di averlo visto sorridere attraverso la piega delle labbra,
era costantemente serio, quasi severo
.

Foto: Aldo Moro e Pier Paolo Pasolini nel 1964 alla presentazione del film Il Vangelo secondo Matteo al Festival di Venezia (autore sconosciuto, licenza PD Italia, Wikipedia)

Quest’anno si commemora il centenario della nascita di uno fra i più significativi personaggi italiani del 900, nato a Bologna il 5 marzo 1922 e deceduto al Lido di Ostia all’età di 53 anni di morte violenta. Pier Paolo Pasolini è un prodotto dell’incrocio dell’unità d’Italia, figlio di padre borghese romagnolo, associato al corpo di fanteria, e di madre friulana trasferita a Bologna in qualità di insegnante. Da sempre ebbe un rapporto conflittuale con il padre, ma assai simbiotico con la madre Susanna Colussi, deceduta novantenne nel 1981. Tanto da dedicarle la poesia “Storia di un amore autentico” e a sceglierla per interpretare Maria, madre di Gesù, anziana nel film” Il Vangelo secondo Matteo”.

Di grande statura culturale, Pasolini è uno dei più famosi scrittori del secolo scorso: regista, giornalista, sceneggiatore, poeta e drammaturgo. Versatile anche come pittore, linguista e romanziere. (Sommo) genio e sregolatezza. Stile critico e provocatorio, ebbe da dire anche nei confronti delle abitudini borghesi e della nascente società dei consumi. Sua peculiarità è non essere “prendibile” e funzionale a nessun sistema: fosse il PCI, la chiesa o il capitalismo, lui è sempre più in là, sempre oltre. Non si adegua a nessun sistema sacro, economico o culturale. Il sistema era per lui volontà di menzogna. Quando tradotto in sistema, la stessa idea di Dio poteva diventare strumento nelle mani del potere.

Ovvio che – con queste idee- conducesse una vita difficile e violenta. Fu espulso da diverse organizzazioni e anche dal PCI, che poteva essere la sua matrice vitale. Ci fu un periodo nel quale, per campare, dovette vendere libri alle bancarelle di un quartiere periferico romano.
Il sottoscritto ebbe l’occasione di incontrarlo due volte. La prima fu nel giugno 1962, allorché iscritto all’università Laterano di Roma completava un’inchiesta sull’argomento “Simbologia religiosa del film italiano” facendo interviste agli attori del cinema. Ebbi così l’occasione di conversare con Federico Fellini, Giulietta Masina, Vittorio De Sica, Alberto Sordi, Marcello Mastroianni, Rosanna Schiaffino, Sylva Koscina, Ermanno Olmi e diversi altri e pure con Pasolini.

La seconda volta è stata quando venne in Svizzera a Basilea nel 1965 a presentare in un cineforum il suo film Il Vangelo secondo Matteo (durata 2 ore e 17 minuti), organizzato dal club culturale giovanile italo svizzero, il cui fondatore era il sottoscritto.

Il nostro primo colloquio -quello del 1962, svoltosi in un bunker di Cinecittà- ebbe come oggetto proprio questa sua pellicola capolavoro, storica e drammatica. Non ricordo di averlo visto sorridere attraverso la piega delle labbra, era costantemente serio, quasi severo: era il suo carattere. A proposito del film: ambientandolo fra i sassi di Matera e altri piccoli paesi contadini del sud, trasferì la vita difficile di quella gente popolana, uomini e donne dalla fronte rugosa per il solleone, dal volto trascurato, emaciati e senza denti, ai personaggi della Palestina ai tempi di Gesù. Già allora sentiva che le persone semplici del proletariato- a cui aveva sempre rivolto attenzione- erano le stesse a cui Gesù aveva rivolto la buona novella e che quindi erano anche gli interpreti migliori, oltre che i destinatari della sua opera di poeta e di regista.

Il contenuto ideale e religioso però è dirompente, anche se si respirava nell’aria lo spirito del concilio ecumenico che si sarebbe aperto l’11 ottobre dello stesso anno. Egli si prefiggeva che il suo film potesse venire proiettato nel giorno di Pasqua in tutti i cinema parrocchiali d’Italia e del mondo. E qui apre il suo discorso sulla chiesa.

Per Pasolini la chiesa era la prima e più appuntita pietra d’inciampo del Vangelo. Lo evidenzierà anche negli “Scritti Corsari” del 1974: la chiesa non può che essere reazionaria, dalla parte del potere, non può che accettare le regole autoritarie, non può che sostenere le società gerarchiche in cui la classe dominante garantisce l’ordinamento, non può che detestare ogni forma di pensiero anche timidamente libero. Ecco la denuncia anche un po’ troppo reazionaria di Pasolini: “la chiesa non può che agire completamente al di fuori dell’insegnamento del Vangelo.” Egli trova in questo una umanità autentica, completa, divina. Lui che si definisce non credente, sente che questa qualità divina della persona umana gli appartiene, appartiene a tutti. “Non credo che Cristo sia figlio di Dio, ma credo che Cristo sia divino, credo che in lui l’umanità sia così alta, rigorosa, ideale che va al di là dei comuni termini di umanità”. Concetti che suonano come una liberazione del Vangelo dalla religione. Basta essere umani per essere divini.

Pasolini trova nel Vangelo la bellezza morale che riconosce unica e incontaminata. La bellezza giunge a noi mediata attraverso la poesia, la filosofia, l’arte. Il solo caso di bellezza morale “non mediata, ma immediata”, allo stato puro, io l’ho sperimentata nel Vangelo. Ed è questa bellezza morale, personale, sintesi di estetica e di etica che il regista vede come indispensabile. Con l’invito a rispondere sempre di più a un clericalismo diffuso, impermeabile che si è infiltrato in molti siti, scuole, sindacati, stampa, banche, amministrazioni pubbliche, parlamenti. Ci vorrebbe anche oggi un Gesù del Vangelo che sapesse tuonare contro scribi e farisei ipocriti. Pasolini era un uomo dai principi a volte forse troppo assoluti e molto tormentato (era nel suo Dna), tant’è che dopo quella lontana intervista annotai un appunto: “probabile reazione e tristezza di un uomo moderno che si affanna alla ricerca della verità”.

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