Il prezzo nascosto del cibo a domicilio

di Marco Nori, CEO di Isolfin

Negli ultimi anni, ordinare il pranzo o la cena a domicilio è diventata per molti un’azione quasi ordinaria. Ci siamo abituati all’idea di poter gustare in pochi minuti pasti di buona qualità, scelti tra un’ampia e varia offerta di piatti delle cucine di tutto il mondo. E in un momento storico in cui il tempo libero a nostra disposizione diminuisce, ogni minuto guadagnato è una risorsa.

Durante la pandemia i ristoranti sono rimasti chiusi per mesi e il delivery ha costituito per tanti un momento di evasione dal COVID; allo stesso tempo, i locali che non potevano più accogliere i clienti, hanno tratto giovamento dalla possibilità di continuare a lavorare consegnando pasti a domicilio.

Da allora, la crescita del settore del food delivery sembra inarrestabile: il portale tedesco Statista registra una crescita in Svizzera del +25,5% (https://www.statista.com/statistics/1176841/restaurant-delivery-user-growth-during-covid-in-europe-by-country/) ed è difficile immaginare un’inversione di rotta.

Proprio per questo, il prezzo nascosto di questa rivoluzione del cibo a domicilio è sempre più evidente e, se è vero che non è sempre colpa dell’utente finale, è altrettanto vero che è la consapevolezza nelle scelte di consumo a fare la differenza.

Le aziende di food delivery stanno investendo in soluzioni ecosostenibili, ma siamo ancora lontani da un ideale punto di equilibrio. Chiunque abbia usato una di queste app almeno una volta nella vita è consapevole che i contenitori monouso, non biodegradabili né compostabili, rappresentano ancora la prassi. Forse, però, non ha mai avuto modo di riflettere sulle batterie esauste delle biciclette usate per le consegne: solo in Cina, nel 2016, sono state quasi ventimila, al cui smaltimento si somma l’inquinamento prodotto da scooter e auto.

Alcuni studi condotti negli ultimi anni, inoltre, associano l’utilizzo delle app di food delivery a un maggiore spreco di cibo. Spesso accade perché i ristoranti stabiliscono e impongono un importo minimo per effettuare la consegna, portandoci a ordinare più cibo di quello che vorremmo o che saremmo in grado di consumare: cibo che spesso, inevitabilmente, finisce nella spazzatura.

Non è una novità che il profitto delle aziende sia realizzato a costo di una carbon footprint non sostenibile, ma le aziende stanno gradualmente tentando di adeguarsi alle crescenti richieste dei consumatori di avere opzioni “green”. È il caso, ad esempio, del colosso Just Eat che ha recentemente iniziato una collaborazione con una startup inglese che produce packaging interamente compostabile e, a volte, edibile. Chissà, forse un giorno nasceranno ricette da farsi con i cartoni della pizza. Scherzo, ma non troppo.

Apparentemente, tuttavia, non è altrettanto semplice rendere sostenibile il modello aziendale di queste big company sotto il profilo sociale. La categoria professionale nata per effetto dell’esplosione del food delivery, i cosiddetti “rider”, è costituita da un esercito di giovani e meno giovani che svolgono un lavoro che, a fronte di un impegno fisico ingente, offre ben poche o nessuna garanzia.

La Commissione Europea ha recentemente presentato alcune proposte per regolamentare il lavoro dei rider e porre un limite alla possibilità delle aziende di approfittare del vuoto normativo per realizzare il massimo profitto, ma il futuro della categoria è ancora da scrivere.

È evidente che non sono i consumatori a dover o poter fasi carico di tali domande e che occorrono modifiche strutturali che vanno ben oltre la nostra capacità di intervento. Tuttavia, non è ragionevole sperare nella decisione spontanea delle aziende di anteporre al profitto la tutela del pianeta e delle sue risorse, anche quelle umane. L’augurio è, dunque, che sia il legislatore a stabilire le regole del gioco, attraverso nuove e più precise leggi in grado di imporre degli standard da rispettare in termini ambientale e sociale. Serve una concertazione politica e sociale, sindacati di categoria e anche tanta buona volontà.

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