La vitamina D. Un alleato prezioso, ma senza esagerare

Di Giorgio Marini

Non fissa solo il calcio nelle ossa – fondamentale per prevenire il rachitismo nei bambini e l’osteoporosi negli anziani – ma agisce anche come un ormone che regola vari organi e sistemi e ha un’azione modulante nei confronti dell’infiammazione e del sistema immunitario. Stiamo parlando della vitamina D, un’alleata preziosa per il nostro benessere, come spiega, tra le varie fonti scientifiche, l’Associazione Italiana sulla Ricerca sul Cancro (Airc). Una sua carenza può essere associata a diversi tipi di malattie come il diabete, l’infarto, l’Alzheimer, l’asma o la sclerosi multipla. Analisi di laboratorio hanno dimostrato che la vitamina D può svolgere attività potenzialmente in grado di prevenire o rallentare lo sviluppo del cancro: frena la crescita delle cellule, ne favorisce la differenziazione e la morte programmata e riduce la formazione di nuovi vasi. Già i primi studi epidemiologici avevano osservato un minor rischio di tumori diversi da quelli della pelle nelle popolazioni più esposte al sole rispetto a quelle che vivono in Paesi con minore irradiazione solare. Non solo. Quelle ricerche avevano sottolineato un ruolo protettivo della vitamina D. Successivamente sono stati indagati in modo diretto i livelli di vitamina del sangue. E, in quel caso, sono emersi risultati incerti.

COME SI FORMA

Da uno studio europeo EPIC – alla cui realizzazione hanno partecipato diversi ricercatori sostenuti da Airc – è venuto fuori che le persone con i più alti livelli di questa vitamina nel sangue hanno un rischio di cancro al colon inferiore di circa il 40 per cento rispetto a chi invece ne è carente. Per contro, secondo quanto è stato ottenuto da altre indagini, per esempio la Women’s Health Initiative americana, l’assunzione di supplementi a base di vitamina D non sembra conferire alcun effetto protettivo. È dunque ipotizzabile che elevati livelli di questa vitamina nel sangue non siano direttamente responsabili del minore rischio, ma rispecchino abitudini più sane che hanno il merito di proteggere l’individuo dal cancro. Al momento, comunque, la ricerca sta andando avanti per chiarire questi fenomeni. Intanto quello che sappiamo è legato alla formazione della vitamina D: un terzo del fabbisogno giornaliero a essa legato proviene da quello che mangiamo. I cibi in cui se ne trova di più sono i pesci grassi (come salmone, sgombro e aringa), il tuorlo d’uovo e il fegato, oltre a quelli che presentano un’integrazione a livello industriale, come molti cereali per la prima colazione. Il resto si forma nella pelle a partire da un grasso simile al colesterolo che viene trasformato per effetto dell’esposizione ai raggi UVB. Dopoché è stata prodotta nella cute o assorbita a livello intestinale, la vitamina D passa nel sangue. Qui una proteina specifica la trasporta fino al fegato e al rene, dove viene attivata.

L’ESPOSIZIONE AL SOLE

La stagione in corso è delicata rispetto a questo nutriente essenziale. Di recente Sandro Giannini, docente di Medicina interna all’Università di Padova e presidente del Gruppo Italiano Bone Interdisciplinary Specialists (Gibis), ha spiegato: «La primavera è il momento in cui la vitamina D è per tutti più bassa, perché siamo più distanti dall’ultima esposizione al sole utile, tra agosto e settembre. Da lì in avanti, infatti, il “pieno di carburante” di questa vitamina, fatto in estate, si esaurisce. È quindi proprio questo il periodo in cui la carenza è più evidente. E visto che c’è una relazione tra vitamina D è sistema immune è il momento di prestare attenzione. E, se è necessario, integrare anche per “armare” il sistema immunitario». Ha aggiunto Giannini: «La storia della vitamina D è ovviamente centrata sullo scheletro. Infatti, il problema principale di salute che la vitamina D è in grado di gestire al meglio è proprio la fragilità ossea. Ma ormai ci sono una serie di altre novità scientifiche solide, relative ad altre funzioni. Una, ad esempio, che in questa fase pandemica è particolarmente importante, riguarda la stimolazione del sistema immunitario». Ha proseguito l’esperto: «Questa vitamina è coinvolta in un meccanismo che permette al sistema immune di essere più pronto ad affrontare infezioni, in particolare di tipo virale, come il Covid». Nel Belpaese, negli ultimi due anni, «è diminuito il consumo di vitamina D come terapia. E questo non sempre in maniera appropriata», ha spiegato ancora Giannini. «Nel 2019, nell’ottica di una riduzione della spesa farmaceutica, l’Agenzia italiana del farmaco, ha emanato una nota per limitare l’impiego della vitamina D. E già allora avevamo sollevato qualche preoccupazione, in particolare sulla necessità di fare attenzione all’appropriatezza della terapia».
A marzo 2020, sempre rispetto al monitoraggio dell’Aifa, è stato valutato l’impatto economico e il contenimento dei costi ottenuto dalla riduzione dell’utilizzo del nutriente, senza però alcun accenno agli effetti negativi, per esempio con riferimento alla popolazione anziana. Il Covid, come indicato, ha riportato la questione alla ribalta. Il presidente Gibis ha dunque lanciato un appello: «È sicuramente giusto guardare al risparmio e a un utilizzo più appropriato possibile della vitamina D, che ha avuto sicuramente risvolti di inappropriatezza in passato. Ma è necessario anche considerare il beneficio che possiamo avere mancato, di questi tempi, con una contrazione così elevata dell’utilizzo».

TEST SEMPRE NECESSARI?

Uno studio pubblicato sulla rivista specializzata “Bmc Health Services Research” ha evidenziato che in Svizzera, soprattutto nei mesi invernali, il 60% della popolazione soffre di una carenza di vitamina D. L’Ufficio federale della sanità pubblica (Ufsp) ha suggerito a tutte le persone di assumere regolarmente questa vitamina, ma senza sottoporsi a test specifici. Nel Paese elvetico, infatti, in base a un’indagine commissionata dallo Swiss Medical Board, sarebbero effettuate troppe analisi di laboratorio per verificare un’eventuale mancanza di tale sostanza. L’Institut für Hausarztmedizin und Community Care di Lucerna (Iham&Cc), in collaborazione con l’assicurazione malattia Swica, ha analizzato i dati di 200.043 assicurati nell’anno 2015 e di altri 200.046 nel 2018, diffusi alla fine del 2020. In questo lasso di tempo il tasso di assicurati che si sono sottoposti al test è passato dal 14% al 20%, con un aumento di quasi il 50%. Estesi a tutta la Svizzera, i costi per le analisi dei livelli di vitamina D nel sangue – definiti «esorbitanti» dagli autori della ricerca – hanno raggiunto circa 90 milioni di franchi nel 2018. Anche in altri Paesi europei si osservano tendenze analoghe, determinando «un eccesso di cure mediche e un’assistenza inadeguata».
Inoltre, un recente report dell’Università di Zurigo ha dimostrato che gli integratori di vitamina D non hanno un effetto significativo sulla riduzione delle fratture ossee e nemmeno sulle funzioni delle gambe e della memoria. In conclusione, dunque, sarebbe limitare i test alle categorie a rischio, come le persone in età avanzata e in sovrappeso o quelle che hanno la pelle scura, per le quali la carenza di vitamina D può risultare più pronunciata.

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