Parità di genere: vedere è credere

Era il 2006 e l’Economist dedicò una copertina alla “Womenomics”, neologismo creato nel 1999 dalla giapponese Kathy Matsui, che legava le tematiche delle cosiddette pari opportunità agli indicatori di crescita economici di un paese. Nel suo rapporto, chiamato appunto “Womenomics”, Kathy analizzava la situazione delle donne nel mercato del lavoro in Giappone e scriveva: “Cosa hanno in comune: telefoni cellulari, internet, personal computer, minicar, l’acquisto di una casa e beni di lusso? Risposta: le donne giapponesi”. Secondo i dati raccolti dalla ricercatrice alla fine degli anni ‘90, se 100 donne avessero lavorato, esternalizzando così i lavori domestici, si sarebbero creati posti di lavoro per altre 15.

Quasi quindici anni dopo, il ruolo motore del lavoro femminile nella crescita economica del futuro prossimo rimane sottostimato. La questione non riguarda solo il Giappone.

Anche se cresce la consapevolezza che una partecipazione femminile in linea con quella maschile significa più ricchezza per tutti, l’accesso delle donne a posti di responsabilità e l’orientamento verso settori ritenuti tradizionalmente maschili rappresentano ancora un problema. Secondo le ricerche del Global Media Monitoring Project 2015, nell’82% dei casi a spiegare e interpretare il mondo è lo sguardo maschile. Il potenziale femminile rimane poco valorizzato. Un esempio: a livello internazionale nel 2019 solo un CEO su venti era di sesso femminile. Il tasso più elevato (16%) è stato registrato in Norvegia. La Svizzera si posiziona invece dalla parte opposta dello spettro.

Nei vertici delle aziende svizzere, le donne continuano ad essere sottorappresentate. In cifre: una soltanto è a capo di una delle 50 maggiori imprese quotate in Borsa, come emerge dall’ultima analisi della multinazionale di reclutamento del personale Heidrick & Struggles, pubblicata all’inizio del mese. E anche se si prendono in analisi oltre 900 presidenti di direzione in 16 paesi, la Svizzera si piazza al penultimo posto della classifica (insieme alla Germania), e prima solo della Cina.

Secondo i dati dell’Ufficio federale di statistica circa il 40 per cento del divario salariale tra i sessi non può essere spiegato se non in termini di pregiudizi di genere, che possono portare a disparità di opportunità nella formazione o nelle promozioni, che in ultima analisi si ripercuotono sullo stipendio. È un dato allarmante. E assolutamente contrario agli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, tra i quali si situa il raggiungimento della parità di genere.

Per quanto l’obiettivo non sia stato ancora raggiunto, in Svizzera non mancano progetti volti proprio ad abbattere la discriminazione salariale, e in generale le anomalie e disparità di genere. Qualche esempio? EQUAL-SALARY, che dal 2010 si è costituita come Fondazione, ha sviluppato – in collaborazione con l’università di Ginevra – una certificazione, uno strumento pratico e scientifico, che permette alle aziende di verificare e comunicare in che misura i dipendenti, uomini e donne, sono retribuiti in egual misura per lo stesso ruolo. “Ricevere uno stipendio equo è solo il primo passo verso la parità tra i sessi” – ricorda Lisa Sennhauser, Membro del Consiglio di fondazione – “In Svizzera i salari non sono trasparenti, quindi penso che la certificazione EQUAL-SALARY possa contribuire a rassicurare sia gli uomini che le donne sulla loro posizione.”

Inoltre l’8 novembre 2019 è stata lanciata la campagna “100 donne e mille altre”, che porta un altro contributo concreto per una società nella quale le donne, di tutte le età e professioni, trovino un terreno fertile per esprimere i loro talenti. Si tratta di un progetto interregionale di comunicazione e sensibilizzazione, che coinvolge Francia e Svizzera e pone al centro storie di donne, i cui percorsi professionali e personali si dipanano, anche in ambiti considerati maschili. Del tema si è occupata anche, alcuni anni fa, la Fondazione Bracco, sostenitrice di “100 donne contri gli stereotipi” (#100esperte), un progetto che ha portato alla creazione, nel 2016, di una banca dati con nomi e CV di esperte di STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics); alla quale si è aggiunto un database con le esperte del settore economico finanziario. Dal 2019 il progetto si è aperto al settore della politica internazionale.

Lo scopo di entrambe le campagne è smontare gli stereotipi e svecchiare così un linguaggio (spesso mediatico) dove si trascura l’apporto delle donne in tutti gli ambiti, dalla scienza e la medicina alla tecnologia, dall’economia alle scienze sociali, passando per l’arte e lo sport – a dimostrazione che le competenze non hanno genere. Il modo in cui si cerca di smontare questi stereotipi è ‘geniale’: far in modo che le donne ‘si vedano’ rappresentate.

Lo sappiamo, ce l’ha dimostrato la scienza comportamentale: noi umani siamo animali da branco. Il nostro comportamento, così come le nostre scelte professionali e di vita, sono influenzati da ciò che gli altri fanno, comprese le norme sociali e la cultura in cui viviamo. Per questo, sono importanti progetti che non solo permettono alle donne di ‘immaginarsi’ in altri ruoli, ma che fanno conoscere donne che svolgono ‘altri ruoli’. Vedere è credere.

 

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