Quando Francesco Rosi si fermò a Eboli

Come nacque il film tratto da “Cristo si è fermato a Eboli”, il best seller mondiale sul Mezzogiorno firmato da Carlo Levi

di Paolo Speranza

Fu sul set di Salvatore Giuliano che si era materializzato quell’incontro tra Francesco Rosi e Carlo Levi che avrebbe ispirato al regista, diciotto anni dopo, un film tratto da Cristo si è fermato a Eboli, il best seller mondiale sul Mezzogiorno italiano.
Al critico di “Positif” Michel Ciment, che intervistò il regista durante le riprese sul set a Craco, in Basilicata, il 18 aprile del ’78, Rosi confermò che già quindici anni prima, dopo l’incontro con Levi e appena ultimato Salvatore Giuliano, aveva in mente di realizzare un film da quel libro che l’aveva molto impressionato. “Levi era venuto a trovarmi a Montelepre durante le riprese – racconta Rosi al mensile francese nel febbraio 1979 – e aveva poi molto apprezzato il film. Egli voleva affidarmi la trasposizione del suo libro, pensando che sarei riuscito a renderne bene l’atmosfera che lo pervade e il delicato rapporto tra il protagonista e la materia stessa del libro. Per diverse ragioni lasciai quel progetto in sospeso, perché in quel periodo ero preso da altri interessi artistici, ma ora ho pensato che, al contrario, questo è il momento opportuno per riprendere quel soggetto: in un’ottica però differente da quella che avrei scelto nel 1963. All’epoca sarei stato colpito soprattutto dalla miseria, le malattie, l’arretratezza dei contadini di una regione sottosviluppata e abbandonata da tutti, persino da Cristo. Oggi invece io penso che il punto di vista debba essere differente. Non è più soltanto la questione di rappresentare questi problemi, ma è soprattutto una questione di marginalizzazione di queste terre”.


Fedele al suo metodo, che potremmo definire storico-sociologico, Rosi svolse sopralluoghi accurati in tutta la Basilicata prima di individuare le location più adatte, a suo avviso, a restituire allo spettatore il mondo arcaico che quarant’anni prima si era rivelato agli occhi del confinato antifascista venuto da Torino. La scelta cadde infine su due paesi di particolare suggestione visiva:
Furono due i set più importanti del film, quello di Craco e l’altro di Guardia Perticara. Craco, un piccolo paese del materano che dal 1962 aveva cominciato a franare, all’epoca del film nel 1978 era già ridotto a un cumulo di rovine. Fra quelle macerie vennero ambientate scene importanti. Quelle esterne: l’arrivo di Levi ad Aliano e il suo primo incontro con il parroco don Traiella; il sanaporcelle alle prese con la sua chirurgia castratoria, le passeggiate esplorative di Levi per le vie del paese e alcune scene riferite ai due confinati comunisti. E quelle degli interni: la casa della vedova in cui Levi alloggiò nei primi giorni del confino alianese, cioè prima che, grazie all’interesse insistente della sorella del podestà, andasse ad abitare in un alloggio più dignitoso. Per quest’ultimo, venne utilizzata la stessa casa di Aliano dove Levi alloggiò effettivamente nel periodo di confino”, ricorda Domenico Notarangelo, fotoreporter e dirigente della Camera del Lavoro di Matera, nel suo libro Con Francesco Rosi nella Matera di Carlo Levi. Ricordi e immagini dal set (“Quaderni di Cinemasud”, 2011).

All’uscita del film, in Basilicata si rinnovò il corollario di dibattiti che aveva accompagnato le opere di Rosi sul Mezzogiorno. Il più importante, promosso a Matera dai sindacati, dalla Fondazione “Carlo Levi” e dal Consiglio Regionale alla presenza del regista, con gli interventi di autorevoli critici cinematografici (Antonello Trombadori), politici (l’ex ministro socialista Giacomo Mancini, il dirigente nazionale del Pci Gerardo Chiaromonte, il presidente del Consiglio Regionale della Basilicata Giacomo Schettini), sindacalisti (Sergio Garavini), studiosi (lo storico Rosario Villari, Rocco Mazzarone in rappresentanza della Fondazione Levi, il sociologo Domenico De Masi) registrò un coro di consensi alla scelta del regista.

A Rosi fu riconosciuto soprattutto il merito di aver saputo rappresentare la Basilicata coniugando la sostanziale fedeltà al testo di Levi ad uno sguardo più moderno e complesso sulla realtà del Mezzogiorno interno: “Il film di Rosi è importante – è la sintesi di Mancini – anche perché Rosi forse ha visto quello che Levi non vide e non poteva vedere, che cioè non c’era solo rassegnazione nei contadini ma anche volontà ed esperienza di lotta”.


Neanche in questa circostanza mancò qualche voce dissonante, per la verità piuttosto isolata, sebbene accreditata di grande prestigio intellettuale come quella di Leonardo Sacco, intellettuale materano formatosi sul meridionalismo classico e direttore della rivista “Basilicata”, che al dibattito sul Cristo di Rosi dedicò un numero speciale con gli estratti di tutti gli interventi. Il titolo, Troppo poco leviano il Cristo del film, non rispecchia l’opinione prevalente – largamente positiva – sul film, ma esclusivamente l’intervento di Sacco, dedicato in realtà soprattutto a confutare alcuni stereotipi sul libro di Levi che ancora perduravano nel dibattito politico sul Mezzogiorno: “Ciò che stiamo leggendo sui giornali in queste settimane intorno a questo film – afferma il direttore della rivista lucana – non è per noi incoraggiante. Ci fa infatti temere, specie nel grande pubblico, il ribadimento di antichi, errati giudizi sul pensiero di Levi, e sulle sue e nostre impostazioni meridionaliste”.


La polemica di Sacco era rivolta alle semplificazioni della stampa nazionale, “quasi si scopra nuovamente la drammaticità della situazione meridionale, e ci si affanni a chiedere ad un regista cinematografico giudizi politici, bilanci economici, suggerimenti sociali”, ignorando decenni di impegno ed elaborazione degli intellettuali meridionalisti, laddove Chiaromonte aveva invece rilevato che “il film è uno strumento di questo impegno perché esso serve a parlare al cuore della gente, a far capire a tutti l’importanza di questa lotta”, e Mazzarone aveva apertamente ringraziato Rosi “non solo per la sua fatica riuscita, ma soprattutto per quanto di provocatorio ha saputo conservare del memoriale di Carlo Levi”.


Per i paladini, veri o presunti, del Mezzogiorno e per gli studiosi del cinema di Rosi resta oggi imprescindibile la lunga intervista rilasciata dal regista a “Positif” durante la lavorazione del film. Nella seconda parte, registrata da Ciment a Roma il 20 dicembre ’78, il regista ci consegna non soltanto la chiave di lettura più autentica del suo Cristo ma un una sorta di testamento poetico sulla sua idea di cinema e sul rapporto con il Sud, spesso problematico, come si è visto, ma indissolubile nell’arte come nella vita: “Lei sa – risponde Rosi al critico francese – che io ho fatto la maggior parte dei miei film sui problemi del Sud, e questo libro mi ha dato la possibilità di rappresentare con un rigore, più che voluto direi sentito, tutta la tematica meridionale. Ma questo rigore assoluto delle scelte tematiche non sacrifica affatto la libertà dei rapporti che Levi, in quanto individuo, intrattiene con il mondo del Sud. Questo film è il mio viaggio personale dentro il libro di Levi e al tempo stesso dentro la mia stessa cultura, nella mia infanzia, nei miei ricordi, nei miei conflitti, che sono quelli di un uomo del Sud”.

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