Sono ancora Italiano e resto in Svizzera

La storia migratoria di Adriano Mancuso. Partenze seguite da diversi ritorni in patria, le difficoltà e le sfide da affrontare, la soddisfazione per gli obiettivi raggiunti

di Marco Cippone, studente del Liceo Artistico di Zurigo, “giornalista per un giorno”

In foto: Adriano Mancuso

Nel secondo dopoguerra tantissimi italiani – soprattutto del Sud, dove dilagavano povertà e disoccupazione- si sono trasferiti in Svizzera. Hanno affrontato molte sfide: barriere linguistiche, discriminazione e difficoltà nell’integrazione sociale. Ho intervistato Adriano Mancuso, che ha vissuto quel periodo: nato -nel 1961- e cresciuto a Sarno, in provincia di Salerno, oggi lavora come sacrestano alla Missione Cattolica di Lingua Italiana di Zurigo.

Adriano (in alto a sinistra) nel 1978

Il suo passato migratorio inizia in Germania: nel 1978, si trasferì a Schweinfurt. Dopo tornò in Italia. Nel 1980, dopo che il terremoto dell’Irpinia scosse il Sud Italia, Adriano e i suoi tre fratelli seppero che la Svizzera offriva rifugio ai terremotati di quella zona e riuscirono a ottenere una delle case a Goldbrunnen, a Zurigo (le spese erano in parte coperte dallo Stato per aiutare le vittime del terremoto).

L’unico mezzo per arrivare in Svizzera era il treno


Andare a Zurigo non era previsto: Adriano a vent’anni avrebbe dovuto fare il militare, ma a causa del terremoto non ha dovuto prestare servizio. Al sud le condizioni erano pessime e i 4 fratelli andarono quindi a Zurigo dove cominciarono a lavorare con dei contratti stagionali. La prima professione di Adriano, mantenuta fino al 2004, fu l’imbianchino. Per arrivare in Svizzera l’unica via disponibile era il treno. “Era un treno vecchio, credo fosse degli anni 60”, e su questo treno diretto a Zurigo da Napoli, Adriano avrebbe dovuto spendere 12 ore dentro delle cuccette “piene di uomini che venivano dalla Sicilia e con un odore sgradevole”. Al confine dovette sottoporsi a una visita medica.

Adriano (a destra) con due dei suoi fratelli a Zurigo nel 1990: “non ero solo avevo i miei fratelli”

All’arrivo alla stazione si provano emozioni nuove e contrastanti. Adriano ricorda che, sentendo tutti parlare senza capire una parola, pensò: “mi manca il respiro”. Approdare in una nuova nazione è spaesante, ma almeno non si è sentito solo. Alloggiava con i suoi tre fratelli in una stanza singola. Stavano un po’ stretti, ma per lui sono stati “mesi belli”. Con parte della sua famiglia la nostalgia di casa e famigliari passava in secondo piano, ma ad Adriano è rimasto impresso il momento in cui chiamava i suoi genitori. Accanto alla stazione, c’erano moltissime cabine telefoniche una di fianco all’altra e “c’era sempre una fila lunghissima di italiani, albanesi, spagnoli e portoghesi per chiamare casa, ma era normale, noi stranieri il telefono non potevamo averlo”.

Un imbianchino italiano a Zurigo. “Se eri un immigrato dicevi sempre sì e dovevi dire sempre si”

Adriano si alzava presto e andava lavoro con uno dei suoi fratelli. In pausa pranzo si mangiava dentro delle baracche tra altre centinaia di persone. Pesava non conoscere la lingua, ma non solo: essere italiano pesava molto. I lavori più brutti li facevano fare solo agli stranieri.

Se eri un immigrato dicevi sempre sì e dovevi dire sempre si”, perché erano i datori di lavoro svizzeri ad avere il coltello dalla parte del manico, a decidere il futuro di chi per loro era un insignificante e facilmente rimpiazzabile pezzo della manodopera italiana. Quello per gli stranieri fu un periodo non facile. “In strada ti guardavano male e si sapeva se eri uno stagionale”. Trovare casa era difficilissimo. I fratelli Mancuso si trasferirono in un piccolo appartamento sulla Langstrasse: pagavano 800 franchi al mese, tantissimi all’epoca, per una casa in una zona nota per il traffico di stupefacenti.

Un lato positivo è che non erano soli, la comunità italiana si sosteneva a vicenda. La Langstrasse negli anni 80 fu come una “Little Italy” di Zurigo. “Il 90 per cento degli italiani che vivevano li erano operai, c’erano molti magazzini italiani e la gente parcheggiava addirittura la macchina sul marciapiede o in doppia fila, proprio come in Italia”.

Il tavolo solo per svizzeri al ristorante

Italiani e Svizzeri erano profondamente divisi sotto diversi aspetti culturali e questo portava a una divisione nel quotidiano. Adriano ricorda che nei ristoranti c’era il cosiddetto “Stammtisch”, un tavolo dedicato solo ai cittadini svizzeri. Anche se fosse stato libero, a uno straniero non lo avrebbero dato: venivano prima gli svizzeri e poi gli altri. Una mentalità riconducibile a forme di razzismo come l’apartheid negli Stati Uniti, dove nei bus c’erano settori riservati solo ai bianchi. Sì, era allo stesso livello, ma nessuno faceva niente.

Un altro esempio di differenza culturale è la domenica: per gli italiani è un giorno di svago e di festa da passare con amici e famigliari all’aperto, mentre per lo svizzero è una giornata di riposo in casa. Un brano del saggio “Cacciateli” di Concetto Vecchio descrive il weekend svizzero come una sorta di mortorio: “Il sabato pomeriggio i negozi chiudono alle quattro, le domeniche, per l’emigrato abituato allo struscio in piazza, risultano malinconiche e vuote, lo svizzero la domenica cerca la solitudine”. La domenica gli italiani si ritrovavano a un locale chiamato Frascati sul lago di Zurigo, vicino a Bellevue.

La difficoltà di essere italiani in Svizzera

Lo stereotipo degli italiani da un punto di vista svizzero, secondo Adriano è di un uomo rumoroso, svogliato e volgare che fischia alle donne quando passano. E aggiunge: “ci vedevano anche persone molto legate all’Italia e incapaci di adeguarsi. Uno stereotipo comune è che agli italiani mancava il cibo di casa e piantavano i pomodori in bagno, pur di avere i sapori della propria terra”.

Secondo Adriano, il motivo per cui gli italiani venivano discriminati e le loro opportunità lavorative erano limitate, era che “per uno svizzero un italiano non può diventare meglio o essere più ambizioso di uno svizzero, loro si credevano superiori”.

Alla domanda: “cosa pensi del ristorante Tschingg?”, Adriano ha risposto ridendo: “Oggi è scherzoso, un nomignolo e una trovata commerciale, non mi offende o provoca fastidio, però prima se avessi detto Tschingg a qualcuno saresti potuto finire accoltellato! Si arrabbiavano molto gli italiani per quella parola”. Come spiegato nel saggio di Toni Ricciardi (“Breve storia dell’emigrazione italiana in Svizzera”), la parola proviene dagli italiani settentrionali che giocavano a morra in cinque, esclamando “cinq!”.

Dopo quasi un anno da stagionale, nel 1982, Adriano torna in patria (alcuni dei suoi fratelli restano). Ma, dopo 8 anni, nel 1990, si sposa, diventa padre di una bambina e si trasferisce con la famiglia a Zurigo.

Lui lavora di nuovo come imbianchino stagionale; la figlia e la moglie non avrebbero potuto emigrare con lui, ma, nonostante fosse contro la legge, la famiglia resta unita pure in Svizzera, “però stare in nero è sempre un problema, anche perché non erano coperti dalla cassa malati e c’era sempre la paura che ci fosse un controllo della polizia o per la spiata di qualcuno. Mia moglie e mia figlia di appena due anni sarebbero state rimpatriate; quindi, come turisti stavano tre mesi e poi facevano continuamente avanti e indietro. Non ho mai nascosto nessuno nell’armadio, però c’era sempre lo spavento nel caso le facessero tornare indietro alla frontiera”.  

Essendo molto piccola, l’essere clandestina non fu un problema enorme per sua figlia, al contrario di molti altri bambini italiani che invece di frequentare una scuola passavano il loro tempo nascosti in mansarda o nei boschi. Anzi, una volta che la famiglia riuscii a sistemarsi a Zurigo, la bimba frequentò la scuola come i bambini svizzeri. Racconta Adriano: “passati i fatidici 36 mesi ricevetti il permesso annuale e i problemi finirono”.

In Italia non c’erano soldi per avere una vita “decente”


Dopo tre anni da stagionale presso la ditta dove lavorava come imbianchino, nel 1993 Adriano ottiene un contratto che permette il ricongiungimento famigliare, una casa fissa e un telefono.

Adriano con sua moglie. “Non rimpiango nulla”

Il motivo per cui Adriano abbandonò l’Italia per la seconda volta è lo stesso della prima: al Sud non c’era lavoro e non c’erano soldi per avere una vita “decente”. Adriano sarebbe rimasto in Italia, ma dopo aver vinto un concorso come bidello, fu rimandato a casa, perché dicevano di aver trovato qualcun altro e che ci doveva essere un errore. “Sicuramente il figlio di qualcuno fu assunto a causa di qualche raccomandato”. Così Adriano tornò in Svizzera.

Adriano conferma anche quanto scritto sulla xenofobia in “Breve Storia dell’emigrazione italiana in Svizzera”: tra il 1969 e il 1995, la percezione dell’italiano è cambiata. Gli svizzeri sono diventati più accoglienti verso gli italiani, non erano più inorriditi alla loro vista. Pian piano la cultura italiana era accettata e ammirata. Ma se a livello sociale la situazione era migliorata, a livello regolamentare restava tutto severo come prima.

La famiglia Mancuso cambiò casa spesso. Abitarono a Müllerstrasse, zona di prostituzione e poco sicura: “a volte c’erano anche i militari a controllare ciò che accadeva”. Vissero poi a Bernstrasse e infine, dove vivono oggi da più di 30 anni, vicino a Escherwyssplatz.

La Missione cattolica diventa punto di ritrovo


In questi anni uno dei punti di ritrovo della comunità italiana a Zurigo diventò la Missione Cattolica. Era come sentirsi a casa, in Italia. Le domeniche si passavano in oratorio e non ci si sentiva soli. Come scrive Ricciardi nel suo saggio, le Missioni Cattoliche italiane furono un punto di riferimento per gli immigrati e soprattutto per le ragazze. La moglie di Adriano iniziò a lavorare lì molto tempo prima di lui e oggi lui vi ricopre un ruolo indispensabile per ogni chiesa, quello del sacrestano.

Dopo tutti questi anni ho l’educazione svizzera, ma sono ancora italiano, al cento per cento. Non ho nemmeno preso il passaporto svizzero”, ci dice Adriano.

“Credi che prendere quel treno per Zurigo sia stata la scelta giusta?”, gli chiedo. “Sì. Quando torno in Italia, vedo che alcuni miei amici sono rimasti come li lasciai 30 anni fa, non hanno raggiunto niente. La mentalità dei raccomandati è qualcosa che non condivido e che mi ha spinto ad andare all’estero. Non rimpiango nulla”, risponde.
Restare in Italia avrebbe ridotto drasticamente le sue opportunità di lavoro, dice Adriano.

Molti italiani all’estero prima o poi decidono di tornare. Ma non tutti

Come raccontato nel film “Vento di settembre” (regia di Alexander Seiler, 2002), molti operai italiani immigrati in Svizzera negli anni 60, poi tornano in Italia. Seguendo lo “stereotipo dell’italiano nostalgico all’estero”, sembra normale, ma invece Adriano dice: “Io rimarrò qui, ormai questa è casa mia e mi trovo bene. Mia figlia è cresciuta qui e come lei mi sono affezionato alla città. La nostalgia oggi è relativa, con la tecnologia puoi raggiungere persone care a migliaia di chilometri di distanza e ti senti più vicino anche a chi non lo è. A tornare giù non ci penso nemmeno, mi sentirei uno straniero in casa e quindi preferisco sentirmi straniero qui”.

Spiega Adriano “in Italia o ti stanno attorno perché pensano che sguazzi nei soldi o non sei ben accetto. Molti in Italia mi ripetono “Bella la svizzera!”, e io rispondo: sì, adesso!”.

Per Adriano ha dovuto affrontare molte difficoltà, ma oggi è soddisfatto: ha costruito la sua vita con duro lavoro, superando gli ostacoli. È difficile comprendere a fondo cosa ha vissuto Adriano da immigrato italiano a Zurigo, cosa significa sentirsi mancare il respiro appena sceso da un vecchio treno, essere un estraneo “ostile” per quelli del posto, e nonostante tutto sentirsi ancora italiano da fiero abitante svizzero.

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