Colleghi e capi narcisisti. Come riconoscerli e gestirli

L’intervista alla dottoressa Ameya Gabriella Canovi

Di Cristina Penco

Abbiamo cercato di fare chiarezza sul tema del narcisismo psicologico nel mondo del lavoro affrontandolo con la dottoressa Ameya Gabriella Canovi. Psicologa e PhD, si occupa da anni di problemi di comunicazione, relazione e dinamiche di coppia.

la dottoressa Ameya Canovi

Innanzitutto, una premessa: oggi il termine “narcisismo”, con quello che comporta, non è forse utilizzato un po’ troppo e non sempre in modo opportuno?
«Ormai si dà del “narcisista” a qualsiasi individuo – soprattutto, statisticamente, di genere maschile – che si mostra scostante, rifiutante, despota. Quello che non si sottolinea abbastanza è che, piuttosto, esistono dinamiche e aspetti narcisistici che si evidenziano nella relazione. E che la relazione è sempre una danza a due. Ormai l’espressione “narcisista” è abusata e, come ogni cosa abusata, si snatura. Per dare una definizione con le competenze necessarie, invece, esistono criteri diagnostici contenuti nel “DSM-5”, “Il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali”, testo di riferimento per psicologici e psichiatri».

Ma è vero che, in qualche modo, siamo tutti narcisisti?
«Ciascuno di noi ha ferite narcisistiche di disamore, trascuratezza, o ancora provocate dall’essere stati amati male, per cui si assume un’idea distorta di sé, reputandosi non meritevole, oppure sviluppando un falso sé grandioso e pensando di essere chissà chi. In questo range ci stiamo tutti. Ciascuno di noi ha aspetti di disistima o ipervalutazione di sé. La salute sta in un blando punteggio di tali aspetti narcisistici. È importante non banalizzare e non sparare sentenze. Occorre invece chiedersi: da 1 a 100, quanto l’altro ci appare manipolatore? E quanta responsabilità abbiamo noi? Sta a noi non cadere dentro certe trappole, che poi purtroppo vanno ad agganciarsi alle nostre insicurezze. Spesso si rimane in una condizione disequilibrata e infelice per non darla vinta all’altra persona. Ci sono relazioni che diventano un inferno».

Passiamo, nello specifico, ai rapporti di lavoro. In che modo il nostro vissuto affettivo può condizionarli?
«In determinate situazioni professionali si scatenano gli stessi inferni che si scatenano nelle relazioni. Le persone portano con sé i propri buchi affettivi, anche sul posto di lavoro. Sono molteplici le variabili che vengono a incontrarsi. Io sono sempre io, i miei irrisolti pure, e andrò a riattivare comportamenti e dinamiche che ho appreso in famiglia, perché è il primo sistema con cui io mi misuro. E così gli altri intorno a me, capi e colleghi. Sottolineo che la mia formazione è di tipo sistemico. In base a questo approccio sia la famiglia sia l’ambiente lavorativo sono sistemi. E ogni sistema è governato da leggi. Una di queste è la gerarchia. Può sembrare un termine un po’ scomodo, ma in tutte le tribù e società c’è un ordine gerarchico che va rispettato. Questa è una verità. Un superiore ha responsabilità diverse e mansioni diverse da quelle dei sottoposti. Devo stare, insomma, al posto che mi compete».

Gli ambienti professionali non sono terreni neutri, al contrario sono spesso potenzialmente minati.
«Certo. Possono scatenarsi competizioni, invidie, prevaricazioni, paura di non essere prescelti, timore di non essere apprezzati. Tutto ciò si va a instaurare in un sistema di credenze su di me e sul mondo appresi altrove, nei contesti educativi precedenti. Stephen Karpman, analista transazionale americano, ha elaborato un modello in grado di spiegare queste dinamiche. Secondo l’autore in molte interazioni le persone rispettano una sorta di schema, in cui recitano la propria parte come se seguissero un copione. È il cosiddetto “triangolo drammatico di Karpman”, rappresentato, appunto, da un triangolo, in cui a ogni vertice corrisponde un ruolo. I ruoli sono tre: persecutore, salvatore, vittima».

Può farci degli esempi concreti?
«Se sono stato cresciuto col messaggio “Non sei abbastanza”, in un ambiente di lavoro andrò a ricreare qualcuno che mi dica questo o leggerò qualsiasi rimando con quella lente. Ma la lente è mia, e magari è di disistima a prescindere. Se il mio capo è un prevaricatore e vuole dimostrare al mondo di valere, schiacciando gli altri per emergere, si legherà a una dinamica con una persona che non vede il proprio valore o che ha sviluppato in famiglia lo schema del compiacente, che non sa dire di no. Se ho un rapporto distorto col padre, sicuramente andrò a proiettare il mio irrisolto con figure di potere, a partire dal mio superiore. Insomma, ci sarà una grande infelicità».

Come possiamo uscirne?
«Con un lavoro su noi stessi, diventando adulti e prendendoci le nostre responsabilità al 100 per cento per quello che concerne noi e il nostro operato, e al 50 per cento all’interno di una relazione. Chiediamoci qual è il nostro schema, quali sono le lenti con cui guardiamo al mondo. Spesso le lenti sono ereditate e incorporate: una appartiene al padre e l’altra alla madre. Si chiama fedeltà sistemica: se in famiglia avevo un certo patto emotivo, tenderò a ripeterlo facilmente sul luogo di lavoro. Se mio padre era un operaio sfruttato e mia madre non era soddisfatta della sua condizione, probabilmente non mi permetterò di essere felice, anche laddove raggiunga il successo, perché mi sembrerebbe di tradire il sistema. Attenzione, non è una condanna. Non è un determinismo inesorabile. Si tratta di riconoscere il proprio Dna emotivo, vedere il proprio sistema di credenze sul mondo, dove l’ho appreso. Domandiamoci, dunque: quanto sto proiettando all’esterno, quanto dipende dai fantasmi del passato che io faccio riapparire, quanto sono identificato nel ruolo di vittima, di salvatore o di carnefice? Quali erano le condizioni, in famiglia, per essere amati? Ci affezioniamo talmente tanto a dei copioni che anche se diciamo che vogliamo cambiare, molto spesso interviene un boicottaggio al cambiamento. Si preferisce restare in una modalità infelice, dove la colpa è sempre dell’altro, in un lamento infinito».

Come ci si dà la spinta al cambiamento?
«Se avverto dinamiche narcisistiche nel lavoro la prima cosa che possono cominciare a fare è chiedermi qual è la mia parte, qual è il passo di danza che favorisce l’altro, e lo alimenta, nel rapporto a due. Se non sono felice, anziché restare lì e subire, se io posso, devo guardare le mie opportunità e prendermi la mia responsabilità di muovermi e cambiare questo copione. Se in quel momento non ho le condizioni per andarmene, allora devo valutare di poter cambiare atteggiamento, di non dare così tanto potere emotivo a una persona di decidere di fare o no la mia felicità. Se il mio capo mi urla addosso e non apprezza il mio lavoro, devo essere io ad apprezzarmi in primis. E poi devo chiedere all’altro, con educazione, il rispetto. Quanto riconosco me stesso e quanto riconosco le persone che mi stanno intorno? Guardiamo cosa facciamo noi per innescare certi “passi di danza”. Sviluppiamo consapevolezza».

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