Coronavirus, quando è la psicosi a far contagi

Mentre cresce la conta dei contagiati e il numero dei decessi causati dal Coronavirus, sul fronte sociale la fobia da pandemia ha scatenato l’isteria generale. A nulla sono bastate le attivazioni di unità di crisi regionali, con l’individuazione di centri regionali per la diagnosi precoce del virus e la redazione di protocolli a cui attenersi in caso di accesso di persone contagiate negli ospedali di tutta Italia. È bastata la proclamazione dello stato di emergenza da parte del consiglio dei ministri lo scorso 31 gennaio, unita a una buona dose di pressione mediatica (non sempre in buona fede), a scatenare una crisi di panico collettiva, che ha già individuato nei cittadini cinesi la propria valvola di sfogo.

Una vera e propria caccia agli untori, accolta da certa stampa in modo colpevolmente acritico (“I migranti portano le malattie”, titolava qualche giorno fa il quotidiano Libero di Vittorio Feltri), ha prestato il fianco alla stigmatizzazione di migranti e minoranze come vettori di malattie, rivelando una volta di più il potere politico della paura.

A Roma, guardati di traverso, presi a male parole e ostracizzati, sono i cinesi del quartiere Esquilino – come rivela Aramilda Dhrami per Left – indipendentemente dal fatto che siano stati o meno in Cina nell’ultimo periodo. La paura vuole un volto e l’ignoranza fa il resto. Tanto che un’organizzazione protofascista come Forza Nuova arriva a distribuire volantini a Brescia e Como sulle vetrine dei negozi orientali, con la scritta “Coronovirus? Compra italiano”.

Ma sovrapporre il clima di caccia alle streghe al campo ridotto della destra radicale sarebbe riduttivo: il messaggio passa anche attraverso canali istituzionali, se una circolare del conservatorio Santa Cecilia di Roma esclude dalle lezioni tutte le persone di origine asiatica che non si siano sottoposte a controlli.

Non va meglio al di fuori della capitale. Due studentesse giapponesi residenti in Germania, sono state cacciate da un ristorante in Vaticano mentre alcuni ragazzini le chiamavano “spiritosamente” Corona.

Mentre a Recco, paesino ligure in riva al mare, nella provincia di Genova, la proprietaria di un sushi bar ha deciso, come tanti altri colleghi, di comunicare via social che il pesce cucinato nel ristorante è di esclusiva provenienza italiana. Un modo per cercare – finora inutilmente – di recuperare quei clienti che fino a un mese fa c’erano e oggi sembrano spariti nel nulla.

Parlare di razzismo, quando di mezzo c’è un istinto di sopravvivenza, potrebbe risultare eccessivo, ma evocarlo anche solo come possibile deriva futura non è del tutto fantasioso, considerata la facilità con cui la società liquida in cui siamo immersi tende ad avere una memoria a breve termine e dimenticare l’origine dei pregiudizi, senza per questo dimenticare i pregiudizi. I precedenti storici, purtroppo, dai falsi protocolli di Sion in avanti, non mancano.

Ma c’è, per fortuna, anche qualche episodio in controtendenza. A Prato, in Toscana, proprio in quella che in passato veniva considerata la capitale della più grande comunità cinese in Italia, gli studenti dell’Istituto Tecnico Dagomari hanno avviato via social la campagna #viralicontroilvirus per contrastare il dilagare di episodi di discriminazioni e razzismo verso la comunità cinese. Si tratta, nel concreto di postare foto che ritraggono studenti italiani e cinesi insieme, se non abbracciati, in segno di solidarietà, con l’obiettivo di scongiurare ulteriori derive fobiche. Perché a volte basta un simbolo, meglio ancora se visivo, per far colpo sulla mente e resettare il circolo vizioso del razzismo.

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