Essere madre oggi. L’intervista alla dottoressa Ameya Gabriella Canovi

La mamma: una figura amata ma anche molto discussa, pure dai figli

di Cristina Penco

la dottoressa Ameya Gabriella Canovi

In Svizzera e in Italia la Festa della Mamma cade in una data mobile, o variabile, che coincide con la seconda domenica di maggio. Quest’anno si celebra il 14 maggio.

Le origini della ricorrenza moderna risalgono alla fine dell’Ottocento negli Stati Uniti, quando, per iniziativa femminile, furono istituite delle giornate per sensibilizzare sulle condizioni delle comunità locali, piegate dalla scarsa igiene, dalla mancata assistenza sanitaria, dagli alti tassi della mortalità infantile.

Ma il culto della Grande Madre – legata alla fertilità, alla vita, alla nascita, alla cura – ha radici millenarie che affondano nei riti pagani in onore di Rea e Cibele per Greci e Romani e in quelli delle civiltà paleocristiane.  

Al di là della retorica e degli aspetti consumistici della Festa ai giorni nostri, cerchiamo di capire significati e risvolti emotivi della figura materna con la dottoressa Ameya Gabriella Canovi, psicologa e PhD.

Esperta nello studio delle relazioni e della dipendenza affettiva, Canovi ha appena pubblicato il suo secondo libro, ‘Di troppa (o poca) famiglia’. Il primo, ‘Di troppo amore’ (2022), è diventato un bestseller a tempi record (entrambi i volumi sono di Sperling & Kupfer).

Dottoressa, lei segue un approccio sistemico-relazionale, con uno sguardo focalizzato sulla famiglia. In questa cornice, che importanza assume il ruolo materno?

«La mamma è la prima persona che ci accoglie. Il primo contatto che abbiamo con la vita è il grembo materno. Non si può bypassare: resterà un imprinting. La voce della madre, il suo cuore, sono i primi suoni che udiamo. È un rapporto viscerale, quello con la propria madre».

Nel suo libro distingue l’essere madre dal principio materno. Che differenza c’è?
«Si è madri se si dà la vita. Ma essere in grado di procreare biologicamente non significa automaticamente riuscire a essere anche accudenti e presenti alla necessità. Non è scontato. Intervengono varie variabili, per esempio le condizioni socio-economiche, la cultura, cosa è successo a quella persona quando era figlia…».  

Ultimamente la cronaca italiana ha affrontato vari casi di madri che hanno partorito in anonimato e affidato il proprio neonato alle culle termiche di alcuni ospedali. Sono episodi che hanno fatto discutere. Così come la comunicazione di qualche struttura sanitaria e dei mass media: la sensazione è che più o meno esplicitamente si finisse per colpevolizzare quella scelta.

«Le madri che si rendono conto di non riuscire a essere un posto abbastanza sicuro per il proprio bambino e lo porgono ad altre mani accudenti e attrezzate mettono in atto un principio materno. C’è una forma di amore che va oltre il tenere per sé. Dunque, non è un gesto da condannare, il loro, bensì da interpretare come un segno di grande consapevolezza».

Possono esistere altre forme legate all’essere madre, andando oltre l’aspetto biologico?

«Sì. Ha scritto lo psicanalista Massimo Recalcati: “Le mani della madre sono quelle che non si sottraggono”. Siamo madri ogni volta che tendiamo le mani. Attenzione, però. Ricordiamoci che i primi di cui dovremmo essere in grado di prenderci cura da adulti siamo noi stessi, a patto di aver interiorizzato da piccoli quella cura. Quando siamo nati, qualcuno ci ha messo al mondo. Qualcuno, poi, ci ha insegnato che siamo degni di amore. E questo non è detto che lo faccia sempre chi ci accolto nel suo grembo. Lo psicanalista britannico Donald Winnicott dice che basta essere stati amati almeno da un caregiver per sviluppare quella capacità di stare con sé stessi in compagnia di se stessi, cioè di introiettare la cura e poi di agirla verso di noi».

E se non è successo? Se una persona non ha ricevuto quella cura primaria?
«Allora sono “guai”, ma non irreversibili. Citando sempre Winnicott, possiamo trovare nel collettivo una figura sostitutiva, tramite cui si possono interiorizzare comunque la cura e la presenza. Nel mio primo libro, ‘Di troppo amore’, parlo di “protesi affettive”. Prendo a esempio le mie figlie. Il nonno materno, mio padre, non è stato presente. Ma entrambe hanno avuto una figura sostitutiva – per l’appunto una “protesi” – che era il compagno di mia mamma».

Ci sono madri che richiedono per sé l’accudimento rivolgendosi ai propri figli. Questo che cosa comporta?
«Senza voler colpevolizzare o giudicare nessuna madre, può accadere che alcune invertano i ruoli, snaturando un po’ il legame tra loro e i figli, finendo per creare caos nel sistema. Ecco uno dei nodi della dipendenza affettiva: se da bambina o da ragazza mi devo prendere cura dei bisogni emotivi di un genitore, o di entrambi i genitori, io poi resterò acerba e ricercherò quelle figure in un partner. Come scrivo in ‘Di troppa (o poca) famiglia’, andrò a cercare briciole d’amore anche dove non c’è, ripetendo il copione materno, o meglio reinterpretandolo nella sua essenza».

Lei è nata e cresciuta in Brasile. È figlia di emigrati italiani, Merina e Francesco, scomparsi da qualche anno. Vuole rivolgere idealmente un pensiero a sua madre? 
«
Nei miei libri la descrivo come una mamma “di spalle” perché doveva lavorare (aveva un negozio di parrucchiera a Belo Horizonte, ndr). Mi ha tirato su da sola. A lungo sono stata una pessima figlia: per tanto tempo le ho presentato il conto di ciò che mancava. Si trattava sempre di un bilancio in perdita nei confronti di mia mamma. Come poi ho compreso dopo anni di terapia, avevo idealizzato mio papà: lo vedevo distante, bello e affascinante, un eroe. E, parallelamente, avevo squalificato mia mamma, provando un rancore inconscio verso di lei, come se non fosse stata in grado di tenere con noi mio padre. Poi ho capito che le persone frammentate non sono in grado di darsi interamente agli altri. E mio padre, che era frammentato, non poteva fermarsi… Ho rivalutato dopo anni la figura di mia mamma, capendo che lei era rimasta e c’è sempre stata. Credo di aver scritto questi due libri per lei».

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