Giorgio Napolitano e il teatro, una vocazione precoce

L’ex Presidente della Repubblica italiana recentemente scomparso, regista a 18 anni nell’Italia del ‘43

di Paolo Speranza

Se le sliding doors della Storia avessero girato in un’altra direzione, o più semplicemente in un momento diverso, tutto lascia pensare che Giorgio Napolitano sarebbe diventato un importante regista di teatro, come il suo amico e compagno di scuola al Liceo “Umberto I” di Napoli Peppino Patroni Griffi, forse addirittura uno Strehler in versione meridiana e con lo stesso respiro culturale europeo.

L’accostamento al fondatore del “Piccolo Teatro” non è una benevola boutade, ma ha un oggettivo fondamento storico. Strehler da Milano e Napolitano (con Patroni Griffi) da Napoli erano i registi teatrali più promettenti “adottati” nel fatidico 1943, pochi mesi prima dell’8 settembre e delle Quattro Giornate di Napoli, dalle riviste di cinema e teatro più all’avanguardia in Italia, “Via Consolare – Spettacolo” e “Pattuglia”, organi del Guf di Forlì, con un elenco di firme impressionante, da Quasimodo a Guttuso, da Testori a Carlo Carrà, da Lizzani a Caproni e a Paolo Grassi, quasi tutti giovanissimi come i collaboratori da Napoli Antonio Ghirelli, Maurizio Barendson, Patroni Griffi, Michele Prisco, l’attore Achille Millo, il giurista avellinese Giuseppe Santaniello (poi diventato il primo Garante per l’Editoria) e il 17enne Napolitano.

Ad accomunare quei registi in erba era una visione totalizzante e febbrile dell’attività teatrale: “Questo maledetto male del palcoscenico non mi dà pace”, scrive Strehler a Walter Ronchi, animatore delle riviste forlivesi dirette da Armando Ravaglioli, e allo stesso interlocutore Napolitano confida la preoccupazione per la “devastante sospensione della nostra attività e della nostra preparazione”, attesta lo storico Giovanni Tassani, coautore con Umberto Dante e Fabrizio Pompei del fondamentale Una generazione in fermento. Arte e vita a fine ventennio (Palombi Editori, 2010).

Soprattutto a Napoli, fare teatro in quei giorni di guerra richiedeva un coraggio estremo: “Noi ci ostiniamo a stare bene malgrado i bombardamenti – e speriamo di poterlo dire fino all’ultimo, ma anche di questo abbiamo perduto la convinzione. Sai, il nostro teatro Guf – con regia di Napolitano – sta mettendo su uno spettacolo, La casa nell’acqua di Betti. Alla fine del mese si andrà in scena. Speriamo tutto bene e che il cielo ci assista”, confida a Ronchi un preoccupato Patroni Griffi.

Locandina dello spettacolo “La casa sull’acqua”, regia di Giorgio Napolitano

Per quella generazione nata durante il regime la militanza nei Gruppi Universitari Fascisti costituiva l’unica occasione di impegno culturale e di apertura alle avanguardie nell’Italietta provinciale e retrograda, fino a sfociare in una fronda politica e poi, sull’onda dello choc della guerra, nell’adesione convinta all’antifascismo.

Dal drammaturgo fascista Betti il giovane Napolitano passerà presto all’interesse per il teatro di Tullio Pinelli (il futuro sceneggiatore di Fellini), a cui dedica un saggio nel numero di febbraio, e successivamente, in un’ottica sempre più cosmopolita, per Eugene ‘O Neill e autori proibiti come Cocteau, Garcia Lorca, Eluard.

Questo percorso collettivo di formazione aveva preso le mosse a Napoli fin dal 1940, sulla rivista del Guf “IX maggio” (studiata in anni recenti da Ugo Piscopo), che si avvaleva delle firme di Anna Maria Ortese, Pietro Piovani, Santaniello, Ghirelli, e dal ’41 di Massimo Caprara, Renzo Lapiccirella, Luciana Viviani, e più avanti di Francesco Rosi e di Napolitano, autore di un denso reportage sulla Mostra di Venezia.

Finita la pericolosa ubriacatura ideologica giovanile, in quella generazione resterà vitale la profonda cultura.

Già nel gennaio del ‘44 il primo numero di “Latitudine”, diretta da Maurizio Caprara, potrà ospitare il saggio di Giorgio Napolitano Premessa ad un rinnovamento del teatro e scritti di La Capria, Patroni Griffi, Barendson, Compagnone, con l’impegno, si legge nell’editoriale della rivista, “alla educazione verso un costume politico di dignità che della eguaglianza collettiva fa soprattutto una conquista morale“: programma a cui Giorgio Napolitano è rimasto fedele per sempre.

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