La rinascita della natura

Un raro cucciolo di leopardo fa ben sperare. Ma nei prossimi 10 anni ci giochiamo tutto

Di Romeo Ricci

Negli occhi dolci e decisi di questa rarissima cucciola di leopardo arabo che vedete in foto -sì, è una femmina ed è nata in Arabia Saudita-, c’è un messaggio per tutti noi. Nel particolare si tratta di un importante segno di speranza per la rinascita di una specie gravemente a rischio e, in generale, è un passo in più per preservare l’equilibrio naturale del nostro ecosistema. Ma serba anche un monito: non è il momento di alzare i remi in barca e lasciarsi trascinare dalla corrente. “Abbiamo in programma di dare un nome al cucciolo attraverso un percorso pubblico che aumenterà la consapevolezza riguardo la condizione della sua specie”, ci dicono dall’allevamento, gestito dalla Royal Commission for AlUla.

La consapevolezza del fatto che il nostro pianeta va curato e salvato, si espande a macchia di leopardo- permettete il gioco di parole-, ma non è abbastanza ed è importante coinvolgere il più possibile le nuove generazioni. Lo sa bene il WWF (World Wide Fund) che da sessant’anni – ovvero da quando è stato fondato- mette al centro della sua missione la volontà di sensibilizzare i bambini, soprattutto con le riviste e i “campi natura”, che in Svizzera per esempio vengono organizzati da molti anni. “Questo ci permette, in un certo senso, di essere parte della famiglia. In questo modo, rimaniamo nel cuore e nella mente della popolazione”, ha dichiarato la portavoce dell’ong per la Svizzera romanda Pierrette Rey (WWF Svizzera ha sede a Zurigo e “filiali” a Losanna e Bellinzona). Ecco, preservare il nostro ecosistema dovrebbe essere una cosa assolutamente naturale.

Lo stesso impegno e l’identico entusiasmo nella missione di salvare le specie protette si registra presso la Royal Commission for AlUla (RCU), agenzia che sta rigenerando un’area di 22.561 km dell’Arabia Saudita nord-occidentale per renderla una destinazione di rilevanza globale per patrimonio naturale e culturale. Il cucciolo femmina di cui vi abbiamo parlato è nato il 23 aprile ed è uno dei 16 nati nel contesto di un programma di allevamento in cattività gestito dall’Arabian Leopard Breeding Center di Taif. Gli obiettivi della RCU sono quelli di spostare gli allevamenti in nuove strutture all’avanguardia all’interno della Riserva Naturale di Sharaan ad AlUla, con l’auspicio di far nascere da 5 a 10 cuccioli all’anno entro il 2025. Quando il numero delle specie sarà ripristinato e la riserva naturale di Sharaan sarà pronta, i leopardi saranno gradualmente reintrodotti nella loro casa in natura, tra le montagne, dove facilmente potranno prosperare.

La cucciola di leopardo arabo è un gioiello prezioso. Dopo secoli di perdita di habitat naturale e bracconaggio, la sua specie conta oggi meno di 200 esemplari in natura. L’International Union for Conservation of Nature (IUCN) sostiene che essa sia “seriamente in pericolo”, quindi ad altissimo rischio di estinzione. L’habitat naturale del leopardo, che prima si estendeva nella penisola araba e arrivava fino al Levante, è ora limitato a tre paesi: Arabia Saudita, Oman e Yemen.
Questa nascita è significativa. Crediamo che salvare specie in pericolo come il leopardo arabo sia fondamentale per la protezione del nostro pianeta e per l’equilibrio naturale del nostro ecosistema. Il nostro obiettivo a RCU è niente meno che ripristinare il potere dell’equilibrio della natura“, ha commentato il Dott. Ahmed Almalki, Direttore delle Riserve Naturali.

La nascita della cucciola ha un grande valore sia per il patrimonio naturalistico che culturale arabo: per gli abitanti della regione, il leopardo arabo – conosciuto in lingua araba come An Nimr Al ’Arabi’ – ha rappresentato a lungo la bellezza, la tranquillità, la forza fisica, l’impavidità e la libertà. L’animale ha occupato un posto speciale nell’immaginazione per millenni e si ritrova nell’arte rupestre antica, nelle storie e persino nelle espressioni quotidiane. E c’è anche un’altra motivazione di forte impatto politico- sociale: secondo quanto denunciato in questi giorni il principe Ali al-Fadhli (nobile di una tribù dello Yemen da decenni emigrato al Cairo in Egitto), al-Qaeda si autofinanzia proprio vendendo a peso d’oro esemplari di questa specie ormai rarissima (un felino viene venduto a cifre che sfiorano i 70’000 dollari).

Il programma della Royal Commission for AlUla per salvare questi animali è molto corposo: contempla anche la conversione in riserve naturali dell’80% dei terreni che fanno parte del progetto AlUla, in linea con la Saudi Green Initiative; la reintroduzione di specie, preda dei leopardi, come lo stambecco nubiano e le gazzelle Idmi e la formazione dei residenti di AlUla come guardiaparco per salvaguardare le riserve naturali. Inoltre, è prevista l’Istituzione dell’Arabian Leopard Fund, per il quale RCU ha stanziato 25 milioni di dollari, e l’estensione delle collaborazioni con importanti entità dedite alla conservazione come l’International Union for Conservation of Nature (IUCN) e Panthera.

IL PANDA È SALVO, MA TANTI ANIMALI SONO IN PERICOLO

A rallegrare la nostra estate è arrivata a luglio scorso la notizia che il panda – simbolo, tra l’altro, del WWF- non è più in via d’estinzione. Negli anni 80 di questi orsi bianchi e neri restavano poco più di un migliaio di esemplari, sembrava che dovessero scomparire per sempre. Oggi, come riferito dal governo cinese, anche grazie al lavoro attento dei guardiaparco, il numero di panda in natura è quasi raddoppiato così come quello degli esemplari nei programmi di allevamento in cattività (cresciuti con lo scopo di rilasciarli poi nelle riserve per incrementare le popolazioni selvatiche) presenti in tutto il mondo. In più, uno studio sugli effetti del cambiamento climatico sul bambù, che rappresenta il 99% della dieta del panda, indica che la tolleranza della pianta – e della specie che se ne ciba – alle variazioni di temperatura e precipitazioni è superiore di quanto si immaginasse. Scampato il pericolo, questi orsi bianchi e neri sono diventati un simbolo di successo della conservazione a livello globale. Non si può però cantare vittoria, sia a causa della diffusa deforestazione, sia perché è raddoppiato pure il numero dei takin di Sichuan, un incrocio tra una mucca e una capra di montagna, dal peso di oltre tre quintali e mezzo. Essi rosicchiano la corteccia degli alberi e li espongono a infezioni e insetti, modificando così la composizione della foresta: meno grandi alberi – dove i panda costruiscono le tane per i cuccioli e lasciano “messaggi” agli altri componenti della stessa specie- e più sottobosco arbustivo. Un pericolo è poi rappresentato dai cinghiali cinesi, che in Cina sono specie protette proprio come i panda. Il problema è che entrambi sono ghiotti di germogli di bambù.

La vaquita è sull’orlo dell’estinzione

Ci sono specie, però, che corrono rischi maggiori. Per la precisione sono 3.483 quelle classificate all’ultimo gradino prima dell’estinzione. Tra loro anche gorilla, tre famiglie di rinoceronti (Giava, Sumatra e nero), l’elefante africano di foresta, la vaquita (una rara focena di cui sopravvivono poche decine di esemplari in tutto il mondo), la balena franca nordatlantica, la gazzella dama, il bradipo pigmeo, gran parte delle famiglie di tartarughe e diversi tipi di insetti, roditori, volatili e molti primati. Al penultimo gradino si posizionano altre 5.426 specie. A seguire 6.592 sono considerate vulnerabili, categoria di cui fanno parte il panda, il leone, la tigre in tutte le sue sottofamiglie (tre sono già estinte: la tigre di Bali, quella di Java e quella del Caspio) e il leopardo.
Molti progetti di conservazione sono stati avviati in diverse parti del mondo, a cura di organizzazioni no profit e di istituzioni locali più sensibili. In Italia tra gli animali più a rischio c’è la lontra: se ne contano circa 1000 esemplari ma, per avere un futuro, dovrebbero essere circa 5400.  Presente al Sud Italia, la lontra manca praticamente in tutta l’Italia centro-settentrionale, fatta eccezione per Friuli e Alto Adige dove è arrivata agli inizi degli anni 2000 dalla Slovenia e dall’Austria. A fine agosto uno di questi animali dalla coda lunga e potente è stato avvistato nei Grigioni settentrionali dove mancava addirittura dal 2018. A breve l’Ufficio della caccia e della pesca inizierà un monitoraggio sistematico delle lontre per registrare regolarmente la loro distribuzione in tutto il cantone.
Di recente è stato lanciato l’allarme a Berna perché la diversità e le dimensioni delle popolazioni di insetti in Svizzera sono fortemente diminuite, in modo preoccupante e orami conosciamo tutti la loro funzione fondamentale per il buon funzionamento degli ecosistemi: impollinazione, dispersione dei semi, formazione di terreni fertili, catena alimentare per pesci e uccelli.

LE CAUSE DELLA SCOMPARSA DI TANTE SPECIE SONO NOTE A TUTTI
La perdita di biodiversità è da attribuire esclusivamente alle attività umane: dal bracconaggio, all’urbanizzazione, l’abbattimento delle foreste per la creazione di pascoli o di aree per la coltivazione di monocolture, l’inquinamento e i conseguenti cambiamenti climatici da esso generati. La perdita degli habitat impedisce alla natura di autoregolarsi. La colpa è di come mangiamo. Il sistema alimentare “è la più grande minaccia per la biodiversità globale”, ha sottolineato il Wwf proponendo “una vera transizione ecologica che deve cominciare dai sistemi agroalimentari e dalla eliminazione degli allevamenti intensivi”. Si dovrebbe dunque puntare su quelli estensivi, che tutelano “il benessere animale, la biodiversità degli habitat, danno voce e continuità alle culture e tradizioni locali, adottando una soluzione socioecologica alle sfide globali”. La raccomandazione del Wwf per contrastare gli impatti insostenibili di questo sistema alimentare è di “ridurre drasticamente il consumo di carne e imparare a ‘scegliere meglio’, anche pagando il giusto prezzo”.

LA DONAZIONE PIU’ GRANDE MAI FATTA

Ovviamente questa trasformazione ha un costo molto elevato, ma quanto vale il futuro del nostro pianeta? La politica e l’economia non dovrebbero avere dubbi. Di sicuro non ne hanno le nove fondazioni filantropiche – riunite sotto la sigla di “Protecting Our Planet” (“Proteggere il nostro pianeta”)- che qualche settimana fa hanno donato la cifra record di cinque miliardi di dollari per finanziare la protezione del 30 per cento della terra e del mare entro la fine di questo decennio e rallentare quanto più possibile l’estinzione delle specie. Come riporta il Guardian, tra i miliardari del progetto ci sono il fondatore di Amazon Jeff Bezos e l’uomo d’affari svizzero Hansjörg Wyss.

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