L’inno alla vita di Etty Hillesum

La scrittrice morì ad Auschwitz 80 anni fa, il 30 novembre 1943. Il suo diario è sfuggito alla furia nazista. «Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà bene nella mia vita esteriore, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona»

di Amedeo Gasparini

Il Diario che Etty Hillesum tenne dal 1941 al 1943 non è soltanto un resoconto confidenziale di pensieri, opinioni e sentimenti. È un inno alla vita – «sono una persona felice e lodo questa vita» – e alla speranza – «si diventa più forti se si impara a conoscere e ad accettare le proprie forze e le proprie insufficienze». Speranza che si ritrova anche in Anne Frank che, come Hillesum, voleva diventare scrittrice.

Il diario di Hillesum è una travolgente avventura nella foresta dell’amore, della passione e della compassione. Della femmina, della delicatezza, del sentimento. Etty Hillesum era nata il 15 gennaio 1914 a Middelburg, in Zelanda, dalla famiglia della borghesia intellettuale ebraica. Morì ottant’anni fa, il 30 novembre 1943 ad Auschwitz. Il diario è scappato alla furia nazista e apparve nel 1981 presso l’editore nederlandese De Haan. Iniziato il 9 marzo 1941, il diario era quasi illeggibile talmente la scrittura era minuta.

Qui Etty confidò le sue emozioni, paure, speranze, pensieri. Allora l’autrice aveva conosciuto Julius Spier, fondatore della psicochirologia – lo studio della classificazione delle linee della mano. Già direttore di banca, si era trasferito a Zurigo per seguire le orme di Carl Gustav Jung.

Il diario è un crescendo di spiritualità. Più si avvicinava la fine – ed Etty, come molti ebrei nei Paesi Bassi, l’aveva capito – intensificò il suo dialogo “scritto” con Dio. Il diario è infatti un viaggio nel suo mondo interiore. Secondo Jan Geurt Gaarlandt – che ha scritto la prefazione italiana del diario – Etty oggi nei Paesi Bassi è considerata dai cristiani la quinta essenza del cristianesimo e dagli ebrei la quinta essenza dell’ebraismo.

Il padre insegnava lingue classiche. Con la famiglia si stabilì a Tiel, dunque a Deventer. Sin da giovane la ragazza era brillante, ottenne una laurea in giurisprudenza ad Amsterdam nel 1932. Poi si iscrisse alla facoltà di lingue slave. Allo scoppio della Guerra entrò nella resistenza. Il 29 aprile 1942 anche nei Paesi Bassi si dovette iniziare a portare la stella di David e iniziarono le deportazioni di massa.

In luglio Hillesum trovò lavoro come dattilografa presso il consiglio ebraico. Lavorò per mesi all’ospedale di Westerbork. In quel periodo la sua salute era pessima: i suoi amici le avevano detto di nascondersi, ma lei non voleva abbandonare i bisognosi. Le prime note del diario danno già l’idea di un animo sensibile.

Le capacità espressive non le mancavano. Il diario talvolta scandisce anche le ore. Le tematiche principali ruotano attorno al sentimento di affetto di amore e di speranza. «Voglio avere un uomo per tutta la vita e voglio costruire qualcosa con lui. In fondo, tutte le avventure e le relazioni che ho avuto mi hanno resa terribilmente infelice, mi hanno straziata».

La tematica dell’amore, dell’uomo, del marito, del compagno torna più volte nel diario: «Noi donne vogliamo eternarci nell’uomo. Io voglio che lui mi dica: tesoro, tu sei l’unica per me e ti amerò in eterno. Ma questa è una favola […]. Forse pretendo un amore assoluto proprio perché io non ne sono capace?».
La questione dell’amore è esistenziale per Etty. «Il processo di reciproco avvicinamento è dunque parallelo a quello della reciproca liberazione».

 «Non credo di essere adatta a un uomo solo […]. Non potrei neppure essergli fedele […] perché […] sono composta di tante persone diverse». Parla dell’equilibrio spirituale e dell’importanza di ascoltarsi. I pensieri di Etty son imprescindibili dall’uomo: l’essere umano è al centro della sua etica. Etty applicava i Dieci comandamenti con scrupolo. Non si riteneva capace di odiare gli altri – neppure i suoi aguzzini. La coerenza era sacra – «bisogna essere coerenti sino alla fine».

Nell’odio, l’importanza dello spirito altrui viene dimenticato; «s’accartoccia e avvizzisce in qualche angolino. Viviamo in modo sbagliato, senza dignità e anche senza coscienza storica […]. Io non odio nessuno, non sono amareggiata. Una volta che l’amore per tutti gli uomini comincia a svilupparsi in noi, diventa infinito». Poi la curiosità, ammetteva, prendeva sempre il sopravvento.

Emergono anche tematiche legate alla sessualità e al futuro. «A volte avevo la certezza […] che in futuro sarei potuta diventare “qualcuno” avrei realizzato qualcosa di “straordinario”».

La dimensione ideale si trasformava nelle parole di Etty in quella fattuale, delle cose della vita. «Io vivo, vivo pienamente e la vita vale la pena viverla ora, in questo momento». Etty era una donna determinata: aveva una volontà indistruttibile. Sono diversi momenti di penitenza e tristezza, mai di disperazione. Bisogna vedersela con sé stessi e con Dio, scriveva. Ecco ancora l’appello alla vita: «voglio continuare a vivere pienamente».

Etty Hillesum traeva forza nella preghiera e in Dio. «Mi immagino che certe persone preghino con gli occhi rivolti al cielo: esse cercano Dio fuori di sé, ce ne sono altre che chinano il capo nascondendolo fra le mani, credo che cerchino Dio dentro di sé».
«Dio non è responsabile verso di noi; siamo noi a esserlo verso di lui».

Sui campi di concentramento: «Ci portiamo dentro proprio tutti, Dio e il Cielo e l’inferno e la terra e la vita e la morte e i secoli, tanti secoli». Eppure, per Etty Dio non è una figura impalpabile. «Sì, mio Dio, sembra che tu non possa fare molto per modificare le circostanze attuali, ma anche se fanno parte di questa vita io non chiamo in causa la tua responsabilità. Più tardi sarai tu a dichiarare responsabili di noi».

Rimase lucida fino alla fine: capì gli eventi.

«Parlerò con te, mio Dio. Posso? Col passare delle persone, non mi resta altro che il desiderio di parlare con te. Amo così tanto gli altri perché amo in ognuno un pezzetto di te, mio Dio. Ti cerco in tutti gli uomini, spesso trovo in loro qualcosa di te. E cerco di disseppellirti dal loro cuore, mio Dio».

Non mancano aspetti di quotidianità nel diario di Etty Hillesum. Della sua città scrive: «A Deventer le mie giornate erano come grandi pianure illuminate dal sole, ogni giornata era un tutto ininterrotto, mi sentivo in contatto con Dio e con tutti gli uomini […]. C’erano campi di grano che non dimenticherò mai e dove mi sarei quasi inginocchiata».
«Piccole barbarie si accumulano di giorno in giorno», annota. «Secondo la radio inglese, dall’aprile scorso sono morti 700.000 ebrei, in Germania e nei territori occupati. […] Eppure, non riesco a trovare assurda la vita».

Etty Hillesum accettava il suo destino. È questo che determina la sua grandezza. In una lettera da Westerbork lo dice: «La gente non vuol riconoscere che a un certo punto non si piò più fare, ma soltanto essere o accettare. Ho cominciato a accettare già da molto tempo, ma accettare si può solo per sé stessi e non per gli altri».

Per Etty l’amore è speranza e la speranza è amore: continuò ad essere affezionata alla vita anche quando preparava lo zaino per il campo: «porterò con me lo stretto necessario, poco, ma tutto di buona qualità».
«Ho una fiducia così grande: non nel senso che tutto andrà bene nella mia vita esteriore, ma nel senso che anche quando le cose mi andranno male, io continuerò ad accettare questa vita come una cosa buona».

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