Nella pietra e nel sangue: intervista a Gabriele Dadati

“Nella pietra e nel sangue” (Baldini + Castoldi) è il nuovo romanzo di Gabriele Dadati.

Gabriele, com’è nato il romanzo e come hai gestito l’alternanza dei capitoli ambientati nel Duecento e quelli nel presente?

Io in genere lavoro così: inizio a immaginare la storia che intendo raccontare e nel contempo mi dedico a documenti, saggi e cataloghi di mostre, ma anche a narrativa e cinema che siano ambientati in contesti simili, per vedere come viene restituita la vita materiale, che è uno degli aspetti su cui vale spendere ore in eccesso piuttosto che in difetto. Poi preparo una scaletta molto accurata, in cui ogni capitolo è già ben delineato. Quando poi scrivo è quasi come se riraccontassi una storia che mi è stata raccontata, o che ho vissuto, tanto grande è stato il lavoro preparatorio. E così è andata anche stavolta.

La distanza degli accadimenti narrati nel romanzo è segnata anche dal punto di vista linguistico e sono presenti nei capitoli storici toni espressivi ‘lontani’ da quelli che usiamo oggi…

Il ricorso a due diversi piani temporali, ai quali si è accennato, mi ha permesso da un lato di costruire una prosa tutta giocata sull’imitazione della prosa latina del tardo Medioevo, con una costruzione ampia della frase e un grande uso delle metafore naturali, e dall’altro di impiegare una sintassi svelta e una allusiva. Portando dentro anche un sentire che non appartiene ai personaggi medievali: quello dell’ironia. Però, al di là della divaricazione forte tra le due lingue, il romanzo è tenuto insieme in ragione di temi che si ripropongono e si specchiano: basti pensare alle meditazioni sul potere che contiene. Per gestire al meglio il loro riecheggiare, era meglio procedere dritto per dritto.

Altri temi che ritornano e si susseguono ‘a specchio’ nei capitoli riguardano i bambini (o fanciulli) e poi, soprattutto, le figure femminili. Lucia, la ragazza di Dario, è co-protagonista della storia presente narrata nel tuo romanzo, e con lei il giovane dantista condivide le proprie scoperte e procede nella ricerca. Anche nella parte del romanzo che riguarda Pier delle Vigne, sarà una donna in particolare a dare il via, pur involontariamente, a una serie di eventi che si riveleranno drammatici.

Lucia è non solo il punto di equilibrio di Dario, ma una vera e propria guida. Nel senso che lui se ne è innamorato, durante gli anni dell’università, nell’esatto momento in cui si è reso conto che lei era più lucida sulle cose. Poi, in un rapporto di mutuo scambio, anche Dario c’è per Lucia, questo è chiaro. Ben diverso è quello che accade nei capitoli duecenteschi, dove si mostrano ad esempio principesse il cui destino non è altro che essere concesse in matrimonio quale ‘firma’ di accordi politici e spartizioni di possedimenti.

Alla luce del dramma dei mesi passati, alcuni passaggi del romanzo – scritto e pubblicato prima della pandemia – suonano quasi profetici. Mi riferisco all’invito ‘a studiare’, a verificare le fonti, a non fermarsi all’evidenza: “I racconti dettagliati e gli eventi precisi danno l’impressione di essere veri”. Siamo stati sommersi, le scorse settimane, di dati (quanti contagi e quanti decessi), di grafici dai trend del virus in salita o in discesa. Ci sono state presentate informazioni discordanti all’interno anche della comunità scientifica, che è apparsa sempre più preoccupata di dare una risposta subito, qui e ora. E in modo semplice, semplificato. Il protagonista di Nella pietra e nel sangue, invece, approfondisce, vaglia ipotesi, non si ferma a quanto “dato per acquisito” dal mondo accademico. La stessa stesura del romanzo è frutto di un procedere lontano dall’immediatezza e velocità del presente che tutto fagocita.

Nella pietra e nel sangue è il precipitato di sette anni di lavoro. Il romanzo su Canova addirittura di dodici. Ma si tratta di cantieri portati avanti in parallelo, passando da uno studio all’altro davvero più per la gioia di farlo che non con senso di costrizione o con un traguardo da tagliare quanto prima. Facendo così, quando si arriva si arriva. Poi, certo, il rischio è che tutto venga bruciato in fretta, in un settore divenuto sempre più frenetico perché sempre più povero. Ma importa davvero, tutto sommato? È così esistenzialmente costoso scrivere un libro che vale la pena farlo solo se si arriva a tirarlo a lucido come davvero si vuole. Questo mette al riparo da ogni delusione. Perché si è appagati dal lavoro delle proprie mani.

I luoghi in cui ambienti il romanzo sono reali, una scelta non scontata per la parte del romanzo che riguarda il presente. Le origini piacentine di Dario e Lucia sono un tributo alla tua terra, che – tra l’altro – è tra le zone d’Italia maggiormente colpite dal coronavirus?

Uno dei miei obiettivi era rendere il romanzo più ‘largo’ possibile, più tridimensionale: nel tempo, mettendo otto secoli tra una vicenda e l’altra, e nello spazio, collocando Dario alla Sapienza di Roma e Lucia ancora nella nativa Piacenza. Siccome dovevo già perlustrare molto che non appartiene alla mia esperienza, almeno per Piacenza mi sono tenuto a quello che conoscevo. Scoprendo, ovviamente, di doverlo guardare in maniera più attenta, per poterlo raccontare. E, in fondo, anche la mia città è a suo modo dantesca: vi si conserva il Landiano 190, il più antico codice datato della Divina Commedia.

Già, la Divina Commedia… Perché a distanza di secoli continua a interrogarci?

La Divina Commedia racconta, soprattutto nell’Inferno, degli universali: il tradimento, la violenza contro chi nutre fiducia, il lasciare che il grido dei sensi sopravanzi la ragione, e così via. Ma lo fa non appoggiandosi a figure di invenzione, ma a vite vere che divengono esemplari. Inoltre, è calata in un immaginario valoriale che è fondante per la nostra società. Infine, contiene scene che sono narrativamente formidabili, oltre che poeticamente di grande rilievo. Per tutti questi motivi, e per molti altri, davvero Dante è per noi il fulcro del canone occidentale.

Morale, religione, passioni, virtù: come si può far convivere il messaggio e la visione di Dante carica di universalità riferita alla condizione umana con l’umanità divisa e fragile odierna?

Anche senza una conoscenza profonda, si potrebbe trarre dalla Divina Commedia questo insegnamento prêt-à-porter: le proprie azioni hanno conseguenze. E possono essere giudicate. Basterebbe questo, unito a un senso di trascendenza che oggi è ormai al lumicino, per vivere con una consapevolezza e un’accortezza maggiori.

Dante viene considerato il padre della lingua italiana, una lingua che nel mondo della ricerca e della scienza è normalmente surclassata dall’inglese. Ma gli anglicismi stanno entrando con forza anche nel nostro uso quotidiano della lingua. Senza combattere battaglie di retroguardia contro l’inglese, è corretto leggere nel tuo libro un invito agli italiani ad avere piena fiducia nella propria lingua in tutti gli usi, compresi quelli scientifici e quotidiani?

A me sta benissimo che esista una lingua franca a livello internazionale: è comodo, ed è sensato. La si impari, la si usi quando necessario. Allo stesso tempo, non si dimentichi che la caratteristica più interessante dell’italiano è che la sua vastità lessicale, che è piuttosto rilevante, discende da ragioni storiche. Prima che esistesse l’italiano, sono esistite (e resistono) le varietà locali. Ognuna portatrice di materialità, senso, idee. Tenere viva nella propria esperienza di parlanti questo patrimonio significa per forza di cose capire meglio la realtà che ci circonda, nel Paese.

Gabriele, quando hai capito che avresti voluto fare lo scrittore?

Durante i primi anni delle superiori, quando mi sono reso conto che rimuginare sulle storie, ancor prima e ancor più che scriverle, era un’attività che mi corrispondeva. Di lì in poi, si è trattato di commettere più errori possibile per vedere come fare meglio la volta dopo.


NELLA PIETRA E NEL SANGUE

Un romanzo storico, un giallo, una storia d’amore. Senza che nessuna classificazione prevalga sulle altre. Perché “Nella pietra e nel sangue”, l’ultimo romanzo dello scrittore italiano Gabriele Dadati, classe ’82, incrociando piani temporali diversi, conduce il lettore in un viaggio all’indietro nel tempo, per rivivere vicende lontane quasi otto secoli fa e fare chiarezza sui fatti; ma anche un viaggio all’interno di ciascuno di noi, per “mettere a posto tutte le cose”, svelare le ombre del potere e toccare la forza dell’amore.

Al centro del romanzo – lungo quasi trecento pagine – troviamo la figura di Pier delle Vigne, braccio destro di Federico II di Svevia e morto suicida – quasi otto secoli fa – fracassandosi la testa contro la facciata della chiesa di San Paolo a Ripa d’Arno. L’immagine del suicidio di Pier delle Vigne, raccontato per la prima volta da Boccaccio nel suo Commento alla Commedia, torna nel XIII Canto dell’Inferno di Dante, dove si narra di coloro che sono stati violenti contro se stessi. I motivi del gesto dell’uomo, che si dice essere caduto in disgrazia, rimangono oscuri e le giustificazioni discordanti. E proprio da questo ‘caso irrisolto’ parte il romanzo di Dadati. Come morì realmente Pier delle Vigne e perché fu condannato da Federico II, dopo oltre vent’anni di servizio al fianco dell’imperatore? Quale fu la sua colpa? E cosa lo indusse a suicidarsi in modo così atroce?

Il mistero viene ricostruito e investigato nel libro, presentando, a capitoli alterni, la narrazione storica delle vicende duecentesche che toccano Pier delle Vigne e l’indagine filologica condotta da Dario Arata, giovane dantista dei nostri giorni. L’occasione per “l’incontro” tra Dario e Pier delle Vigne è un convegno alla Normale di Pisa, che porta il giovane a confrontarsi con nuove fonti e a formulare un susseguirsi di ipotesi sulla terribile fine del logoteta. «Poiché ho deciso di dedicarmi a quel celebre suicidio a partire dagli indizi sparpagliati negli antichi commenti danteschi come quello di Boccaccio o di Benvenuto da Imola, oltre che da altri documenti coevi per forza di cose – ci spiega Dadati – avevo bisogno di mettere in scena chi quei documenti li studiasse e li interpretasse, cioè Dario. Se avessi scritto solo della vicenda duecentesca, avrei dovuto lasciar cadere il fatto che l’enigma si trascina per secoli e che, per certi versi, è risolvibile proprio attraverso i documenti.»

Eppure se gli elementi per un cold case ci sono tutti, “Nella pietra e nel sangue” non è un “semplice” giallo. Lo si è detto in apertura: il romanzo racconta un pezzo di Storia, il mondo di Pier delle Vigne, la grandiosità della corte di Federico II, le battaglie e gli assedî fino ai (dimenticati) atroci supplizî inflitti ai condannati da carnefici inimmaginabili. E poi è un romanzo d’amore, o piuttosto, sull’Amore, poiché proprio questo sentimento domina la vicenda umana raccontata e ambientata nel Duecento (dove a prevalere è “l’innocenza del male”) così come quella del presente, che vede Dario e Lucia crescere come coppia e il loro amore maturare. Dunque un romanzo che rifugge ogni semplice classificazione polarizzante ma è capace di accompagnare il lettore in un viaggio tra passato e presente all’interno di un’architettura narrativa coesa e coerente.

 

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