Niki de Saint Phalle, l’artista “cool” che amava l’Italia e soprattutto il sud

Una retrospettiva a Zurigo celebra la sua vita e il suo talento. L’intervista al curatore Christoph Becker

di Dario Furlani

In foto: SaintPhalle, Little-Nana (1968)

Il 2 settembre la Kunsthaus di Zurigo apre le porte alla retrospettiva dedicata alla poliedrica artista francese Niki de Saint Phalle. Pittrice, scultrice nonché regista cinematografica nei suoi ultimi anni di vita, de Saint Phalle è una delle autrici più conosciute e importanti dell’arte contemporanea d’oltralpe e non solo. Le collaborazioni con il suo secondo marito, lo scultore svizzero Jean Tinguely e i suoi lavori negli USA e in Italia contribuiscono infatti ad accrescere la sua fama internazionale. La stravaganza e l’originalità estetica e simbolica delle opere sono il suo marchio di fabbrica e le parole più usate per descrivere la sua arte sono ‘aggressiva’ ed ‘emotiva’.

La sua prima mostra personale si tiene a St. Gallen nel 1956 e nel giro di pochi anni si fa un nome proponendo al pubblico francese i cosiddetti Shooting paintings. Si tratta di opere che coinvolgono anche il pubblico, chiamato a sparare con una carabina contro sacchi di vernice che esplodendo colorano la struttura in gesso su cui sono posizionati. Ma è negli anni ’60 che de Saint Phalle raggiunge il suo climax artistico e realizza i suoi lavori più iconici. Con le sue Nanas l’autrice rimodella le forme femminili e dona loro una libertà nuova e appariscente, sfidando un mondo che non ha ancora conosciuto la rivoluzione sessuale e le proteste femministe di fine decennio.

Cresciuta in un ambiente familiare ostile, il rapporto con i genitori si ‘rispecchierà’ nelle sue opere future. Infatti la relazione turbolenta con la madre, raccontata attraverso una preziosa raccolta di lettere trovate dopo la sua morte, la segna profondamente. Sarà però un abuso sessuale subito all’età di 11 anni da parte del padre che le lascerà una cicatrice particolarmente dolorosa, di cui racconterà esplicitamente solo nel 1994 attraverso la pubblicazione di un libro illustrato.

È appunto la vita e il suo percorso artistico che vengono messi in primo piano dalla mostra curata dal direttore uscente della Kunsthaus, Christoph Becker. Aggirandosi per l’esposizione si ha l’impressione di immergersi nella psiche e nell’intimità dell’artista, le cui opere esposte seguono un ordine cronologico, suggerendo sottilmente al visitatore un elemento da non sottovalutare: il tempo.

Saint Phalle, King Kong (1962)

Seguire lo sviluppo della de Saint Phalle significa ripercorrere i decenni socialmente e politicamente più turbolenti del ‘900. I grandi cambiamenti di quel periodo sono chiaramente identificabili nelle opere degli anni ’60, tra cui l’enorme plastico ‘King Kong’ e la scultura ‘Kennedy-Chruščëv’, entrambi del 1962. Le fasi artistiche dell’autrice sono chiare e si susseguono di anno in anno, dando una visione d’insieme intima e globale allo stesso tempo. Si ha quindi l’impressione di assistere a una maturazione lineare, di cui si possono percepire distintamente i punti di svolta e le influenze temporali.

Legate in modo indissolubile alle opere sono anche le esperienze personali di de Saint Phalle. Opere come ‘Piatti rotti’ sono infatti impossibili da scindere ed attribuire distintamente a un elemento ispiratore. La denuncia politica femminista si mischia al lamento di dolore personale creando uno schiaffo emotivo in grado di stordire l’osservatore. Efficace l’idea di accompagnare la visita con delle citazioni dell’artista che sembra rivivere e commentare personalmente le opere esposte. Si aggiunge quindi un sapore personale che aiuta il visitatore a completare l’analisi delle opere esposte.

La cura dell’esposizione è firmata da Christoph Becker, direttore della Kunsthaus dal 2000, che concluderà il proprio incarico agli inizi di ottobre per lasciare il posto alla belga Ann Demeester. Lo abbiamo intervistato.

Le opere di de Saint Phalle racchiudono spesso una critica o analisi di carattere femminista. Con la quarta ondata femminista sono apparsi però dei nuovi movimenti non ancora nati al tempo dell’artista. Dei fenomeni come quello della Body positivity possono fornire una nuova chiave di lettura a opere come le Nanas?

“È possibile. Penso che le Nanas siano già in un certo senso erratiche e difficilmente contestualizzabili, ma è un’interpretazione plausibile. Quello che cambia è però la ricezione che hanno queste opere. Il pubblico le percepisce come qualcosa di colorato, divertente e innocuo e questo è in contrasto con il senso di protesta del movimento. La domanda è legittima ma se si va indietro e si analizza quello che l’opera ha significato per de Saint Phalle non credo che l’intento fosse di scatenare qualcosa nel futuro, quanto chiarire qualcosa a sé stessa. Questo dà alle opere una grande libertà, perché non sono state fatte con la prospettiva del lungo periodo, bensì per il momento stesso in cui sono state realizzate. E guardando indietro si possono reinterpretare e assumono nuovi significati”.

Facendo così non si rischia di perdere il significato originale?

“Non penso, le opere sono forti abbastanza e parlano per se stesse. Ogni generazione se non ogni osservatore dovrebbe poter interpretarle come vuole e ci dovrebbe sempre essere una libertà in questo senso. Una volta che il lavoro è pubblico l’artista deve lasciare chiunque libero di interpretarlo”.

Saint Phalle, Shooting painting (1964). Sono opere in cui il pubblico viene chiamato a partecipare

Niki de Saint Phalle ha realizzato il Giardino dei tarocchi, una delle sue opere più famose in Italia. Qual è il rapporto dell’artista con il Bel Paese?

“Questo lo raccontiamo anche nel catalogo della mostra. Lei aveva un’amica appartenente alla famiglia Agnelli che le ha promesso un pezzo di terreno in cui poter realizzare quello che volesse. Il terreno è abbastanza in mezzo al nulla [si trova a Garavicchio, nei pressi di Pescia Fiorentina, una frazione comunale di Capalbio N.d.R.] e non credo sia stato un grande problema per la famiglia cederlo [ride]”.

Quindi nessun attaccamento emotivo?

“Lei amava il Meridione e il suo clima. Soffriva di una malattia ai polmoni e l’aria secca di quei luoghi la aiutava”.

Come mai ha scelto di dedicare la sua ultima esposizione come direttore della Kunsthaus a Niki de Saint Phalle?

“Cosa c’è di meglio da scegliere che Niki de Saint Phalle? Voglio dire, è semplicemente cool. Non trovo stupenda ogni singola opera che ha realizzato, ma, per la vita che ha avuto, come donna e come artista la trovo strabiliante”.

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