“Oggi le donne in Svizzera fanno sentire sempre di più la loro voce. È la giusta direzione”

L’intervista a Anne- Sophie Subilia, autrice del romanzo ‘Premio svizzero di letteratura 2023’ L’Épouse, ora pubblicato in lingua italiana, che parla di emancipazione femminile sullo sfondo della guerra tra Israele e Palestina negli anni 70

di Gaia Ferrari

“Il mix delle nostre 4 lingue nazionali non mi appare evidente quotidianamente, purtroppo.
Me ne rammarico. Mi piacerebbe poter passare da una lingua all’altra senza porre domande
a me stessa,
ma queste pratiche sono limitate alle città bilingue, ai Cantoni o ai Grigioni, costretti a tradursi costantemente”
(Anne- Sophie Subilia)

Una donna alla ricerca del proprio posto nel mondo: è Piper, protagonista del romanzo “L’Épouse” (Editions Zoé) della svizzera-belga Anne-Sophie Subilia, che per esso ha ricevuto uno dei Premi svizzeri di letteratura 2023, tra le migliori opere di narrativa dell’anno. Il volume è stato pubblicato in italiano col titolo “La moglie”, da Gabriele Capelli Editore, con la traduzione di Carlotta Bernardoni Jaquinta.

Piper, europea, emancipata e colta, è la giovane consorte di un delegato della Croce Rossa Internazionale, in missione in Palestina. Una terra straniera e dura, in cui lei si ritrova nella condizione di una persona privilegiata, ma sola, dato che il marito è spesso assente per lavoro. Il dolore per la miseria e per la violenza che circondano la protagonista, mentre intorno a lei imperversa il conflitto israelo-palestinese, e la mancanza di un ruolo tutto suo – come viene sottolineato fin dal titolo – la faranno scivolare nella malinconia, facendo riflettere i lettori sul tema, ancora attuale, dell’emancipazione femminile. Abbiamo intervistato la scrittrice Anne-Sophie Subilia,

Nel suo romanzo, utilizza forme espressive di distacco indicando Piper come la donna, la moglie del delegato. È interessante notare che la donna è definita dal legame privato con l’uomo, mentre quest’ultimo è identificato dal suo riconoscimento professionale e sociale. È una scelta deliberata?

«Queste modalità di designazione della protagonista mi sono venute spontaneamente sin dalle prime righe del testo. Mi sentivo a mio agio con questa forma, con questa designazione di “la donna” o “la moglie di”, che mi ha permesso di osservare, studiare, percepire questa donna da molteplici prospettive e a diverse distanze. Il nome Piper l’ho riservato per alcune occasioni. Usato dal fratello quando le parla, o da Mona, la psichiatra diventata sua amica. Intuitivamente collego il nome all’amicizia. Al contrario, scrivere “la donna” traccia una figura più impersonale ma, paradossalmente, molte donne potrebbero riconoscersi. Mi sembra che questa forma di anonimato, in terra straniera, accentui la solitudine del personaggio. Questa formulazione la rendeva paradossalmente più distinta e interessante, quasi diventasse una sorta di musa ispiratrice. Quando scrivo “la moglie del delegato”, si aggiunge un’altra dimensione, riduttiva e un po’ provocatoria, che mette in luce la condizione della donna e il lento cammino verso la sua emancipazione. Piper forse si trova a metà strada: contribuisce all’emancipazione delle donne occidentali, nel solco del ’68; ma d’altra parte, nel suo ambiente, piuttosto borghese, colto, incarna anche la donna che deve svolgere il ruolo di moglie. E ovviamente questo contrasta con il personaggio di Vivian, chiamato la maggior parte del tempo per il suo nome o per la sua funzione professionale, ma mai come “il marito” o “lo sposo”».

Come vede la situazione delle donne oggi in Svizzera? Pensa che le manifestazioni, le iniziative e gli scioperi svoltisi e in corso nei Cantoni stiano davvero cambiando le mentalità? Cosa si potrebbe fare in più concretamente?
«Le mentalità stanno cambiando. Le donne in Svizzera si stanno facendo sentire sempre di più. Forse il nostro Paese sta cercando di recuperare il ritardo avuto concedendo il diritto di voto alle donne solo nel 1971? Ma dobbiamo passare attraverso diverse fasi: prendere coscienza, informarsi, unirci, osare verbalizzare, proporre cambiamenti concreti… Tutto ciò non è facile e probabilmente inizia a casa e con l’educazione. La scuola dovrebbe fare la sua parte. L’arte ha la capacità di scuotere e interrogare profondamente le linee supposte immutabili e il patriarcato ancora prevalente. Tutto questo deve ancora rafforzarsi in Svizzera, ma sento che stiamo andando nella giusta direzione. Le manifestazioni pubbliche sono essenziali per mettere in luce le questioni. Quella del 14 giugno diventa particolarmente unificante (si tratta di una data simbolo per il Paese; in quel giorno, nel 1991, centinaia di migliaia di donne e di ogni partito politico scioperarono per rivendicare i loro diritti, a partire dall’uguaglianza sul lavoro. Una protesta ripetuta, poi, nel 2019 e nel 2023, ndr)».


Nella sua storia, c’è un legame con l’attualità. Ma, per quanto riguarda le radici del conflitto israelo-palestinese e la sua evoluzione, quali sono le principali differenze tra gli anni ’70 e oggi?
«Preferisco lasciare agli specialisti l’analisi delle due epoche e delle loro differenze. Il mio romanzo si svolge nel 1974, alcuni mesi dopo la guerra del Kippur. In quel periodo, e da dopo la guerra dei sei giorni (1967), l’insediamento di colonie israeliane è già iniziato nei territori palestinesi occupati (compresa Gerusalemme Est), nella penisola del Sinai e sull’altopiano del Golan. Questo processo si è poi rafforzato. La guerra del Kippur ha avuto l’effetto di intensificare soprattutto la presenza e l’occupazione dell’esercito israeliano. Nel mio romanzo affronto per piccoli tocchi quest’atmosfera, questo contesto, questa oppressione latente, che si traduce soprattutto in umiliazioni permanenti, come la distribuzione casuale dei permessi di lavoro in Israele, la distruzione delle case, i blackout elettrici, ecc…. Ma la situazione nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania nel 1974 non mi sembra paragonabile a quella di oggi. All’epoca la Striscia di Gaza era ancora un territorio abitabile; c’erano frutteti, colture, che garantivano una certa autosufficienza alimentare, anche se con molto aiuto esterno (in particolare dall’UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente, ndr), per cure mediche e scuole, tra le altre cose. Ma la vita era ancora sostenibile e, soprattutto, permetteva di intravedere speranze di intesa e di avviare processi di pace. Si pensi all’accordo di Camp David nel 1978 e a quelli di Oslo nel 1993. Inoltre, la densità della popolazione era molto minore rispetto a quella che si è registrata in seguito; il blocco imposto da Israele dal 2007 ha contribuito a trasformare la Striscia di Gaza (362 kmq) in uno dei territori più densamente popolati al mondo, una prigione a cielo aperto e una fucina di tensioni».


Il suo romanzo è stato inizialmente scritto in francese ed è stato pubblicato in un’edizione italiana. La Svizzera si presenta come un paese multilingue, dove però non tutte le lingue hanno lo stesso peso. Quale percezione hai? Pensa che ci sia davvero un miscuglio di lingue o piuttosto uno squilibrio? Come vedi e vivi la comunità italiana?
«Il mix delle nostre 4 lingue nazionali non mi appare evidente quotidianamente, purtroppo. Me ne rammarico. Mi piacerebbe poter passare da una lingua all’altra senza porre domande a me stessa, ma queste pratiche sono limitate alle città bilingue, ai Cantoni o ai Grigioni costretti a tradursi costantemente. Ho avuto la fortuna di vivere con coinquiline ticinesi durante i miei studi; è stata la migliore occasione per entrare in contatto con una delle culture che compongono il nostro paese e una straordinaria scuola di lingua. Queste amicizie mi danno la spinta e la curiosità di superare il più possibile le barriere linguistiche per recarmi in Ticino».


Qual è stata la sua formazione? Oltre alla scrittura, a cosa si dedica?
«Sono laureata presso la Scuola superiore delle arti di Berna (HKB), in scrittura letteraria. Prima di questo, ho studiato Lettere all’Università di Ginevra. Attualmente, occupo un ruolo di docente all’Istituto letterario di Bienne; accompagno diversi studenti nel loro progetto creativo. È un lavoro impegnativo e appassionante che svolgo parallelamente alla mia attività di scrittrice e alla vita familiare».

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