Taglio dei parlamentari: su cosa sono chiamati a esprimersi gli italiani

Il 20 e 21 settembre 2020 si terrà in Italia il referendum costituzionale per ridurre il numero dei parlamentari di entrambi i rami del Parlamento, Camera dei Deputati e Senato della Repubblica. Inizialmente previsto per il 29 marzo e rimandato a causa della pandemia di coronavirus, è noto mediaticamente come referendum per il “taglio dei parlamentari”. In questi due giorni, gli elettori potranno esprimere il proprio dissenso o consenso alla legge – già approvata – con la quale viene modificato il Parlamento, riducendo di 230 il numero di deputati e di 115 il numero di senatori elettivi, per una riduzione complessiva di 345 parlamentari. Per limitare i rischi sanitari, le forze politiche hanno deciso di accorpare il referendum alle tante elezioni amministrative e regionali, soluzione necessaria per minimizzare i giorni di chiusura delle scuole e gli adempimenti di sanificazione e pulizia. Le date di indizione del referendum popolare sono state confermate il 17 luglio da un decreto del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. 

Il quesito referendario è il seguente:

«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana – Serie generale – n° 240 del 12 ottobre 2019?»

Gli elettori saranno quindi chiamati a votare per confermare o respingere la legge – cavallo di battaglia del MoVimento 5 Stelle – che modifica la composizione delle Camere con la soppressione di 345 “poltrone”. Si tratta di un referendum confermativo, disciplinato dall’articolo 138 della Costituzione repubblicana. Se i cittadini italiani dovessero esprimere un voto contrario alla riforma, si tornerebbe alla situazione ex ante, ovvero 945 parlamentari totali: 630 deputati e 315 senatori. 

Invece, con la riduzione dei parlamentari, l’Italia – che ad oggi in Europa ha in assoluto la maggiore rappresentanza parlamentare per elettori – diventerebbe il Paese che ne ha meno in proporzione numerica.

In caso di vittoria dei sì al referendum, inoltre, sarebbero ridotti gli eletti all’estero: i deputati scenderebbero da 12 a 8; i senatori da 6 a 4. L’istituto dei senatori a vita sarebbe conservato fissandone a 5 il numero massimo (5, finora, il numero massimo nominabile da ciascun Presidente della Repubblica).

A differenza dei referendum abrogativi, per la validità del referendum costituzionale non è richiesto che vada a votare la metà più uno degli elettori aventi diritto.

La riforma costituzionale sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi, indipendentemente da quante persone si siano recate ai seggi. Se i Sì superano i No, il taglio dei parlamentari è confermato, e dalle prossime elezioni politiche siederanno in Parlamento 200 senatori e 400 deputati, con un risparmio stimato di circa 100 milioni di euro all’anno.

Il dibattito sul numero dei parlamentari iniziò nella Commissione per il progetto di Costituzione – presieduta da Umberto Terracini, incaricata di elaborare la parte del progetto relativa all’ordinamento della Repubblica, e confluita poi nella Parte II della Costituzione – e si concluse nell’Assemblea Costituente, che la approvò il 22 dicembre 1947. La Costituente decise che il numero dei parlamentari variasse con il variare del numero degli abitanti, eleggendo un deputato ogni 80mila abitanti (o frazioni superiori a 40mila) e un senatore ogni 200mila (o frazioni superiori a 100mila). Fu poi la legge costituzionale n. 2 del 9 febbraio 1963 a trasformare quel numero variabile nel numero fisso di 630 deputati e 315 senatori.

Quello di settembre sarà il quarto referendum costituzionale confermativo della storia della Repubblica. 

Nei tre precedenti: due volte la legge approvata dal Parlamento di Roma senza la maggioranza dei due terzi è stata respinta dagli elettori; una sola volta è stata approvata ed è diventata legge costituzionale. Il primo fu il referendum del 7 ottobre 2001, per la conferma della riforma del Titolo V della Carta, approvata dalla maggioranza negli anni dei governo Prodi, D’Alema e Amato: la riforma era passata con il 64,2% di voti favorevoli, anche se l’affluenza si era fermata poco oltre il 34%. Il secondo caso di referendum confermativo, il 25-26 giugno 2006, riguardò la riforma costituzionale varata dal governo Berlusconi (su ispirazione della Lega Nord di Umberto Bossi e con Roberto Calderoli ministro delle Riforme): la cosiddetta ‘devolution’ venne bocciata con il 61% di voti a sfavore, mentre i votanti avevano raggiunto il 52% degli aventi diritto. Il terzo referendum costituzionale si svolse il 4 dicembre 2016: la maggioranza dei votanti respinse il disegno di legge costituzionale della riforma Renzi-Boschi, che puntava tra l’altro a superare il bicameralismo perfetto. A dire no era stato il 59,1%, contro il 40,8% dei sì. I votanti però in questo caso furono da record, quasi il 69%. Prima conseguenza politica, furono le dimissioni del governo Renzi.

Il referendum confermativo serve a sottoporre ai cittadini la riforma votata dal Parlamento, ma può essere richiesto solo se i sì della Camera e del Senato non superano i due terzi dei componenti dell’assemblea. Tre sono i modi previsti dalla Costituzione per far partire la macchina referendaria: a chiedere il referendum possono essere 5mila elettori, 5 Consigli regionali o un quinto dei membri di una delle Camere (126 deputati o 64 senatori). Nel caso della legge sul taglio dei parlamentari, le firme sono arrivate da 71 senatori con il contributo decisivo di alcuni esponenti della Lega di Salvini che hanno così inteso favorire la fine anticipata della legislatura.

I partiti italiani che sostengono la riforma al momento sono: MoVimento 5 Stelle, Partito Democratico, Fratelli d’Italia, Lega, Südtiroler Volkspartei.

I partiti italiani che invece sono contrari alla riforma al momento sono: Volt, +Europa, Azione (partito di Calenda), Europa Verde, Unione di Centro, Movimento Associativo Italiani all’Estero, Partito Socialista Italiano, Vox Italia (partito sovranista di Diego Fusaro), Centro Democratico.

I partiti italiani che sono agnostici alla riforma al momento sono: Forza Italia, Italia Viva (partito dell’ex premier Matteo Renzi), Articolo 1, Sinistra Italiana, Cambiamo! (partito dell’ex berlusconiano Giovanni Toti).

Le motivazioni di questo referendum arrivano da lontano. I numerosi dibattiti, nonché i disegni di legge di modifica del Parlamento proposti nel corso della storia repubblicana, hanno contribuito alla formazione di una vasta opinione pubblica che, da anni, è favorevole a una riduzione del numero dei parlamentari, considerando eccessivo e ingiustificato per il nostro sistema costituzionale l’essere rappresentati da quasi mille parlamentari, in relazione, in particolare, ai risultati politici, oltre che all’andamento e al ruolo morale di tali rappresentanti. Questo pensiero, naturalmente, da tempo è stato corroborato anche da un sistema mediatico abile nel radicare questo tema nelle pieghe più profonde della nostra società, alimentando quell’idea di casta e di privilegi, e con essa uno spirito anti-parlamentare, anche se non necessariamente anti-democratico. Ma non sono soltanto i populisti italiani contemporanei a volere la riduzione dei parlamentari: nel 1984, l’allora Presidente della Camera dei Deputati, Nilde Iotti, esponente del Partito Comunista, ospite del programma TV di Raffaella Carrà ‘Pronto, Raffaella?’, affermò la necessità di una riduzione dei parlamentari con queste parole:

«Nel ‘48, quando entrò in vigore la Costituzione, uscivamo dal fascismo, c’era la necessità di ristabilire un rapporto, un tessuto democratico con la società. Ma adesso ci sono Consigli regionali […], Consigli provinciali, Consigli comunali, siamo cioè di fronte a una società molto più articolata, una democrazia più articolata. Allora io ritengo che il numero dei parlamentari sia davvero troppo alto

Attualmente la Camera dei deputati italiana costa, per ogni giorno di seduta, sia dell’Aula sia delle Commissioni, 4.763.429,96 euro, preceduta soltanto dal Bundestag tedesco (8.350.420,29 euro). Di conseguenza c’è stata una grande enfasi sulla riduzione dei costi della politica sia in termini di indennità, diaria e vitalizi sia in termini di riduzioni dei costi del processo decisionale in sé considerato e di impatto macroeconomico/finanziario delle decisioni stesse.

Il nostro Parlamento, con l’evoluzione dei relativi regolamenti che hanno permesso lo sviluppo di funzioni nuove rispetto a quella legislativa (funzioni di indirizzo politico, di controllo, di garanzia costituzionale), si presenta come un organo fortemente “interventista” rispetto ad altri consessi europei come quello del Regno Unito (dove più incisiva è l’azione del Primo Ministro, che ormai è il capo del governo e non un primus inter pares). L’attuale articolo 83 della Costituzione prevede che per eleggere il capo di Stato sia necessario un numero di votanti pari a 1.003 elettori (630 deputati, 315 senatori, i senatori a vita, gli ex-presidenti della Repubblica, cui si aggiungono i tre delegati eletti da ciascun Consiglio regionale ad eccezione della Valle d’Aosta che ne esprime solo uno). Con la composizione del nuovo collegio (658 Grandi Elettori) sia i delegati regionali sia i senatori a vita di nomina presidenziale sia i presidenti emeriti della Repubblica avranno quindi un peso elettorale maggiore in seduta comune. Con la riduzione dei parlamentari, aumenta il numero di abitanti per parlamentare: per ciascun deputato si passa da 96.006 a 151.210 cittadini e per ciascun senatore da 188.424 a 302.420 cittadini. Di conseguenza, nel caso di approvazione, sarà necessario ridefinire i collegi tramite una nuova legge elettorale (ora in vigore è il ‘Rosatellum’, un miscuglio tra proporzionale e maggioritario) per evitare una distorsione nella rappresentanza nel caso di vittoria del Sì. Non sarà un processo semplice e, soprattutto, non breve, nel nostro Paese. Si tratterà poi di capire se questa legislatura si concluderà con la vittoria del Sì o a naturale scadenza quinquennale.

I sondaggi svolti poco prima dell’inizio della pandemia davano una percentuale schiacciante di elettori favorevoli alla riforma, intorno all’86% (su un campione di 1212 intervistati) secondo Demos & Pi per La Repubblica, e cioè quasi 9 cittadini su 10. 

L’emergenza COVID-19 potrebbe avere alterato l’opinione pubblica, e il voto del referendum potrebbe trasformarsi in un giudizio sul governo di Giuseppe Conte e sul suo operato in questi mesi di crisi.

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