“Lascio l’Italia, anche da sola”. Sempre più donne partono per l’estero in cerca di realizzazione personale e professionale

Delfina Licata

L’intervista a Delfina Licata, sociologa delle migrazioni presso la Fondazione Migrantes

di Rosa Duccilli

“Noi siamo una repubblica che si è fondata sul lavoro, ma fuori dei confini nazionali. E questo è un fatto storico perché gli accordi per il lavoro con il Belgio sono stati fatti lo stesso anno della proclamazione dell’Italia repubblicana”

Con la valigia in mano. Non hanno mai smesso di partire, gli italiani, che, dalla metà del XIX secolo ai nostri giorni, a grandi ondate continuano a trasferirsi oltralpe e oltreoceano in cerca di fortuna. A tal punto che oggi la comunità dei cittadini tricolori ufficialmente iscritti all’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), oltre 5,8 milioni, ha superato la popolazione di stranieri regolarmente residenti sul territorio nazionale (quasi 5,2 milioni).

Ne abbiamo parlato con Delfina Licata, sociologa delle migrazioni presso la Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana e curatrice del “Rapporto italiani nel mondo”.

La mobilità è un aspetto strutturale del nostro Paese? 

«L’Italia è da sempre un paese legato alla mobilità umana e, in particolare, l’emigrazione è talmente interconnessa con la nostra storia, l’economia e la società italiana, da esserne elemento strutturale per eccellenza. Occorrerebbe rileggere la nostra storia (sociale, economica, politica, demografica) di popolo e di nazione europea attraverso la prospettiva migratoria per capire tanti passaggi che sfuggono ai più. Basti riflettere su un elemento tra i tanti. Nell’anno della pandemia, 2020, ancora una volta e nonostante la diminuzione del fenomeno registrata a livello nazionale, tutti i contesti provinciali, senza alcuna esclusione, sono stati interessati dal fenomeno della mobilità dei connazionali verso l’estero: la «malattia migratoria» è strutturale all’Italia e qualsiasi ragionamento, analisi o strategia operativa deve tener presente il doppio binario nazionale/locale per poter agire non tanto sui rischi di abbandono e spopolamento, che sono peraltro già in atto da tempo, quanto sull’impatto subito, e quindi sui piani di arginamento che è possibile mettere in atto».

Quanto incide tutto ciò anche sull’aspetto esperienziale e identitario? 

«Non c’è famiglia italiana che non sia legata in qualche modo all’esperienza migratoria. Noi siamo una repubblica che si è fondata sul lavoro certamente, ma fuori dei confini nazionali. E questo è un fatto storico perché gli accordi per il lavoro con il Belgio sono stati fatti lo stesso anno della proclamazione dell’Italia repubblicana. Una diaspora così potente per tempo storico, modalità, penetrazione nel tessuto geografico e sociale ha prodotto un popolo che ha nel DNA il movimento. Da qui la ricchezza della mobilità italiana che non guarda solo oltre confine, ma è fatta di migrazione interna, intra-regionale, intra-provinciale fino alle nuove modalità di circolarità e pendolarismo. La mobilità italiana è cresciuta e si è trasformata nel tempo seguendo l’evoluzione sociale e culturale italiana, europea e cosmopolita. Il nodo problematico riguarda la non presa di coscienza da parte dell’Italia di questa sua caratteristica endogena e l’interpretazione antropologica e culturale che si è fatta dell’emigrazione quale elemento di vergogna e da nascondere perché fa emergere povertà, necessità, fame.
Il termine con il quale si è definita l’esperienza migratoria italiana ai tempi della Grande emigrazione è diaspora. La parola, in realtà, sta per dispersione e, da sempre, ha una valenza negativa perché sottende la costrizione alla partenza. Viviamo da alcuni anni in Italia, proprio su questo fronte, un momento molto delicato. Ancora oggi, infatti, le partenze sono necessarie, costrette, espulsioni. Uno dei rischi da evitare, però, è la condanna della migrazione che avviene quando la si considera solo come svilimento e perdita e non nelle sue qualità positive di opportunità di incontro e di arricchimento reciproco con modelli culturali diversi. Una mobilità circolare, come è quella in cui sono inseriti i recenti flussi degli europei, e quindi anche degli italiani, è un movimento diverso maturato a seguito dei processi di globalizzazione del lavoro, delle economie, delle società».

Da una ricerca Changes Unipol emerge che negli ultimi 10 anni un milione di italiani si è trasferito all’estero, a fronte di 400 mila rientri, con un saldo migratorio negativo di 600 mila persone. La metà degli emigrati appartengono alla Generazione Z e ai Millennials e hanno un’età compresa tra i 18 e i 35 anni. Che cosa cercano questi giovani oltre i confini? Da che cosa fuggono? 

«Dal 2006 (anno della prima edizione del “Rapporto Italiani nel Mondo della Fondazione Migrantes” che io ho ancora l’onore di curare) ad oggi la presenza degli italiani all’estero è cresciuta dell’86,9%. Ogni anno le partenze ufficiali superano le 100 mila unità e il 42% di esse riguarda giovani e giovani adulti tra i 18 e i 34 anni. Oggi gli italiani risultano residenti in ogni luogo del mondo e ogni singolo territorio italiano ha visto in passato, e continua a vedere oggi, i giovani e i giovani adulti italiani partire e salutare i confini nazionali. Perché? La risposta è complessa. L’errore che si fa è pensare che il problema sia unicamente la disoccupazione – specialmente giovanile – endemica piaga del Belpaese. Così non è e lo si tocca con mano incontrando questi giovani e giovani adulti in tutti i luoghi del mondo, intervistandoli. La maggior parte di loro ci parla di realizzazione del sé che passa anche attraverso il trovare un lavoro che corrisponda al titolo acquisito con sacrificio e dedizione, ma c’è altro. C’è il desiderio di crescere umanamente e professionalmente. C’è il desiderio di autonomia, di genitorialità, di maternità e paternità, di poter possedere una casa, una macchina, di prendere in mano le redini della propria vita affrancandosi dai propri genitori. Da troppo tempo l’Italia involve su se stessa non investendo su politiche dedicate alla formazione e al lavoro, ma bloccando la mobilità sociale e incentivando per giovani e giovani adulti la mobilità territoriale, spingendoli lontano dai loro territori e mettendo le loro competenze, le loro capacità e i loro entusiasmi al servizio di altri paesi. La vera sfida è riportare in essere in Italia una sorta di ascensore sociale, permettendo ai giovani di contribuire da protagonisti al progresso e al futuro italiano ed europeo. La vera sfida alla quale siamo chiamati a partecipare è, dunque, quella di guarire un’Italia dalla migrazione malata trasformandola da mobilità territoriale in mobilità sociale».

Grazie alla collaborazione del giornale con il Liceo Artistico di Zurigo, tramite alcuni studenti diventati “giornalisti per un giorno”, abbiamo intervistato una serie di emigrati italiani nel territorio elvetico. Tra le varie interviste ci siamo resi conto che molte donne sono emigrate nei Cantoni per seguire il proprio marito. Vi risulta, però, ci siano anche donne che si spostano da sole, alla ricerca di un miglioramento del proprio contesto formativo o professionale? 

«L’attuale mobilità femminile italiana reclama, oggi, una sempre maggiore attenzione poiché i numeri sono sempre più elevati e i profili sempre più complessi. A inizio 2021 è ancora più evidente il processo di assottigliamento della differenza di genere iniziato già sedici anni fa quando le connazionali iscritte all’Aire erano il 46,2% (1 435 150 in valore assoluto), per poi arrivare al 47,8% dieci anni fa nel 2011 (1 967 563 in valore assoluto) e, attualmente, si registrano 2 718 678 iscrizioni, il 48,1% del totale Aire. Se, quindi, i cittadini italiani residenti oltre confine negli ultimi sedici anni sono aumentati dell’82%, le donne in particolare lo hanno fatto dell’89,4%. Un processo che è, allo stesso tempo, di femminilizzazione e di familiarizzazione. A partire, infatti, sono oggi moltissime donne alla ricerca di realizzazione personale e professionale, ma vi sono anche tanti nuclei familiari con figli al seguito, legati o meno da matrimonio. Stando ai dati dell’Ufficio centrale di statistica del ministero dell’Interno aggiornati all’inizio del 2020, su quasi 5,5 milioni di residenti all’estero, le famiglie sono 3 223 486. Molte sono partite con la famiglia, da sposate o da nubili ovvero con il marito o con il compagno e, in entrambi i casi, con figli minorenni soprattutto di età inferiore ai dieci anni; tante altre hanno lasciato l’Italia da sole».

E altrove, sempre all’estero, com’è la situazione? 

«I paesi che nel mondo accolgono le comunità femminili più numerose sono, nell’ordine, Argentina, Germania, Svizzera, Brasile, Francia e Regno Unito. Vi sono però 46 paesi nel mondo in cui il numero delle donne italiane supera quello degli uomini. In particolare, si segnalano la Grecia, l’Argentina, la Croazia, l’Uruguay, il Perù, il Cile, e il Sudafrica. Si tratta, soprattutto, di donne italiane residenti all’estero da oltre 20-30 anni, vedove in molti casi, che restano nella loro “seconda patria” vicino ai figli e ai nipoti nel frattempo nati all’estero e completamente integrati in quella realtà. I profili che abbiamo delineato ricalcano quelli maschili: si tratta cioè di altamente qualificate e ultra specializzate che vanno all’estero con la strada già segnata da una richiesta delle loro competenze e specificità; in altri casi, sono «semplici» laureate e/o diplomate, realizzate pienamente all’estero grazie a una occupazione corrispondente alla propria formazione, al titolo di studio posseduto e alla proprie aspirazioni oppure impegnate in un lavoro dequalificato, ma felici perché hanno ottenuto in condizioni meritocratiche, ben retribuito, con possibilità di crescita e miglioramento, sicuro rispetto a quanto accade, attualmente, in Italia. È però necessario soffermarsi su quelle donne che, in mobilità, si trovano in condizioni di povertà più o meno grave, oppure di irregolarità rispetto alle leggi in vigore negli Stati esteri di residenza. Sono molteplici, poi, le situazioni di “mal di vivere”, depressioni, forme patologiche che nel caso delle donne sviluppano accenti diversi rispetto agli uomini e aggravanti per i molteplici ruoli che incarnano: donna, moglie, madre, lavoratrice (ruoli non di certo scritti in un ordine progressivo o decrescente di valore)».

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