Da terra straniera a casa

La storia di immigrazione di Monica Zangobbi, arrivata in Svizzera per ricongiungersi al marito, medico ad Aarau

di Francesco Macolino, studente del Liceo Artistico di Zurigo, “giornalista per un giorno

In foto: Monica Zangobbi

La migrazione italiana in Svizzera inizia nel XX secolo. La prima generazione di italiani che arriva in Svizzera proveniva soprattutto dalle regioni settentrionali dell’Italia, come Lombardia, Veneto e Piemonte. La situazione economica instabile in Italia non prometteva un futuro agli italiani, che andarono nelle zone di Ginevra, Basilea e Zurigo per lavorare nell’industria tessile, nelle costruzioni e nell’agricoltura guadagnando soldi “umili” per poter sfamare le loro famiglie rimaste in Italia. 

Questi lavoratori erano impiegati come stagionali, quindi potevano lavorare in Svizzera solo una stagione, non potevano portare la propria famiglia e dovevano tornare in Italia in inverno.

Le cose cambiarono nel dopoguerra, quando arrivò la seconda generazione di italiani che proveniva prevalentemente dalle regioni meridionali d’Italia. In questo periodo restò in vigore lo statuto degli stagionali, ma con alcune modifiche. La maggiore differenza ci fu con la terza generazione di italiani nel XXI secolo che dura fino a oggi. In questo periodo non solo gli operai, ma pure i laureati che non trovavano lavoro in Italia a emigrano in Svizzera. Nel 2002 venne introdotto il trattato di Schengen che sostituì lo statuto degli stagionali e che permise agli immigrati provenienti dallo spazio Schengen di restare e vivere in Svizzera e portare con sé la propria famiglia.

Ho intervistato Monica Zangobbi, che appartiene alla terza generazione di immigrati. È venuta in Svizzera non per motivi lavorativi, ma per ricongiungimento familiare con il marito che esercitava ad Aarau la professione di medico già da qualche anno.

“Un periodo molto difficile”
La storia di migrazione di Monica Zangobbi inizia nel 2000, quando il marito Christian Crott, medico tedesco, trovò lavoro in Svizzera nella cittadina di Aarau come “Assistenzarzt” nel Kantonsspital. Suo marito aveva deciso di accettare la proposta di lavoro visto che la Svizzera si trovava a metà strada tra la Germania e l’Italia e inoltre poteva utilizzare la sua lingua madre al lavoro, esercitando la sua professione in un cantone della Svizzera tedesca. Nel frattempo Monica viveva tra l’Isola d’Elba e Milano, essendo proprietaria di una piccola azienda turistica sull’isola toscana e proprietaria di abitazioni a Milano. La permanenza di Monica in Svizzera si limitava a 4-5 mesi durante il periodo invernale. In questo periodo andava a trovare il marito con il primo figlio Max, nato in Italia nel 2000, mentre gli altri 7-8 mesi li trascorreva in Italia. Monica si muoveva in auto tra l’Italia e la Svizzera: ciò rendeva il viaggio più comodo rispetto al treno, mezzo di trasporto invece utilizzato dagli immigrati italiani precedentemente, come è stato mostrato nel film documentario “Septemberwind” di Alexander Seiler.
Un periodo molto difficile”, così Monica descrive i 5 anni di pendolarità tra l’Italia e la Svizzera. Christian e Monica avevano 800 chilometri che li separava e un figlio appena nato. “Avevamo 32 e 33 anni, era un’età importante per noi, avevamo anche un bambino, ma vivevamo distanti, anche troppo”, dice.

Aarau

“Weis ih nöt”
A rendere il periodo più complicato fu lo shock culturale che Monica provò nei mesi in cui veniva a trovare il marito. Vivevano in appartamento in affitto ad Aarau. Il posto non aiutò nell’integrazione per via della mentalità chiusa delle persone che vivevano nel paesino. Le persone erano fredde, poco socievoli e non erano aperte a fare nuove conoscenze, sebbene Monica parlasse tre lingue fluentemente tra cui anche il tedesco.
Ero arrivata da poche settimane e volevo capire dove potevo buttare le bottiglie di plastica e le lattine. Ero nuova e non conoscevo niente e nessuno. Però sapevo parlare il tedesco visto che avevo lavorato come hostess per la compagnia aerea Air Europe. Avevo due buste piene di lattine e bottiglie. Per non cercare a vuoto ho deciso di chiedere ad un passante dove potessi smaltire la mia spazzatura. Quando mi sono avvicinata per chiedere informazioni ad un signore, lui mi ha squadrato dalla testa ai piedi. Ero abbronzata e quindi avevo una carnagione diversa dalla sua, ma lui mi guardava come se fossi un alieno. Poi ha alzato la testa e le spalle e mi ha detto: Weis ih nöt – freddo – poi se n’è andato senza aiutarmi”.

Monica, provenendo dall’Italia, non era abituata a questo modo di relazionarsi e restò interdetta. Inoltre, anche nel suo condominio i vicini non erano propensi a parlarle. Per esempio, quando lei chiedeva qualcosa ai propri vicini, che conosceva, loro aprivano solo uno spiraglio della porta mostrando quasi paura ed imbarazzo nel contatto con un’altra persona. Inoltre, quando lei faceva dei piccoli regali ai vicini per le festività, loro rimanevano meravigliati dal suo gesto, che invece in Italia è normale.
Un altro fattore che alimentò lo shock furono le condizioni meteorologiche. Monica passava i 4-5 mesi del periodo invernale in Svizzera. Era abituata al bel tempo della Toscana, al sole e al caldo, ma in Svizzera trovava solo freddo, pioggia e neve.

Un nuovo inizio
Nel 2006 Max doveva iniziare la scuola primaria. Ciò avrebbe obbligato Monica a restare più tempo in Italia e meno con suo marito, quindi si trasferì definitivamente in Svizzera. Monica e Christian andarono ad abitare a Uetikon am See dove speravano che le persone fossero più aperte di mentalità e più socievoli. Fu così. Monica riuscì ad ambientarsi con più facilità rispetto che ad Aarau. A Uetikon am See incontrò più coppie internazionali della loro età, più affini alla sua personalità e con cui si trovò molto bene. Le persone erano più disposte ad aprirsi. Dopo otto anni, Monica e il marito si trasferirono a Meilen, dove abitano oggi. Negli anni seguenti al trasloco nacque Valentina, che oggi frequenta la seconda classe al Liceo Artistico di Zurigo. Lentamente Monica si ambientò in Svizzera.

Integrazione e discriminazione
L’integrazione di Monica e della sua famiglia non fu semplice ed immediata, lungo il percorso ci furono diverse difficoltà sia linguistiche che umane. Monica racconta la discriminazione legata alla lingua, nonostante lei sapesse parlare e scrivere il tedesco. “Quando chiedevo alle persone di parlare in Hochdeutsch, visto che non capivo ancora lo Schwitzerdüütsch, loro mi guardavano con faccia interdetta e non volevano comunicare con me. Avevo la sensazione che non sapessero parlare l’Hochdeustch ed è per questo che non mi rispondevano”. Un altro episodio di discriminazione legato alla lingua, lo visse quando sostituì una segretaria del marito andata in maternità. Racconta come le altre segretarie parlassero tra di loro in svizzero tedesco per non farle capire cosa stessero dicendo e per sentirsi più importanti di lei, non facendola sentire integrata all’interno dello studio medico di suo marito.

Monica e la sua famiglia

Passaporto
Dopo 17 anni in Svizzera, è solo da 4 mesi che tutta la famiglia di Monica possiede il passaporto rossocrociato. Ormai si sono ambientati completamente in Svizzera e la barriera dello svizzero tedesco non è più un problema. Monica dice che è troppo presto per constatare se avere il passaporto svizzero comporti dei cambiamenti a livello sociale, ma crede che ci saranno in un prossimo futuro. Come mai? In virtù di episodi frequenti del passato là dove, se avesse avuto un passaporto svizzero, sarebbe stata trattata in maniera diversa, come per esempio alla dogana durante il suo periodo da pendolare tra Milano e Aarau.

Da terra straniera a casa
All’inizio per Monica arrivare in Svizzera significava sì ricongiungersi con il marito, ma soprattutto abbandonare gli agi della sua terra natale, un portiere che l’attendeva all’ingresso del suo palazzo a Milano, una casa accogliente, il bel tempo e la sua famiglia d’origine, per ritrovarsi in un paese ai suoi occhi inospitale, diverso e straniero. Oggi tutto è cambiato. Quando Monica torna in Svizzera dopo un periodo di lontananza, il paesaggio che l’accoglie è lo stesso di tanti anni fa, ma lei lo guarda con altri occhi.
Oggi Monica è fiera di essere svizzera.
Oggi Monica ama questo paese.
Oggi Monica finalmente si sente a casa.

SVIZZERI O ITALIANI?

Il Liceo Artistico italo-svizzero fondato nel 1989 simboleggia la perfetta accettazione e integrazione della cultura italiana e degli italiani in Svizzera. Da quando gli operai italiani vivevano nelle baracche e venivano chiamati «Tschingg» fino alla fuga dei cervelli italiani dei giorni d’oggi sono passati molti decenni. Con la classe 3a1, 9 studenti madrelingua o perfettamente bilingui, abbiamo ripercorso la storia dell’emigrazione italiana in Svizzera. Ogni studente ha poi intervistato un italiano o un’italiana residente nel Canton Zurigo e si e fatto raccontare la sua storia.

Romano Mero, docente di italiano e francese al Liceo Artistico di Zurigo dal 1993

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